INDICE


ASPETTI SOCIO-CUTURALI DEI CONCETTI DI EROISMO E SCONFITTA IN GIAPPONE


di Capocelli Mirko Mario

INDICE

Introduzione:

le radici comuni dell’eroismo in occidente e in oriente  

Radici comuni 

Cap. I: La figura dell’eroe nel Giappone classico
1.1 Un eroe diverso 
1.2 Il prototipo dell’eroe giapponese: Yamato Takeru
1.3 L’on
1.4 I Quarantasette Rōnin 


Cap. II: La figura dell’eroe durante la guerra

2.1 Il principio primo della guerra: imporre la gerarchia 
2.2 Diversi fondamenti culturali

Cap. III: I kamikaze
3.1 “Se solo potessimo cadere come i fiori di ciliegio in primavera
    così puri, così luminosi

3.2 Profilo di un kamikaze 
3.3 Motivazioni 

Cap. IV: Lo Hagakure

4.1 Origini 
4.2 Un manuale per suicidi? .

4.3 Yukio Mishima 
4.4 Lo Hagakure visto da Mishima 

Glossario e indice dei nomi 

Bibliografia 

Abstract 

INTRODUZIONE


INTRODUZIONE

LE RADICI COMUNI DELL’EROISMO IN OCCIDENTE E IN ORIENTE


Il termine “eroe” trae le proprie origini dal greco “ήρως” (hérōs) utilizzato per definire,
nelle civiltà primitive e poi nella mitologia, personaggi semidivini (spesso nati dal connubio tra divinità ed esseri umani) con funzioni benefiche e protettive nei confronti della comunità che rivolge loro un culto particolare. Col trascorrere del tempo, il termine è poi passato ad identificare un individuo dotato di eccezionale coraggio e particolari virtù morali; questi quindi si distingue dal resto dell’umanità per tali straordinarie qualità e, spesso, per la lotta condotta in nome di grandi ideali dei quali si fa portatore e difensore.

È tuttavia necessario ricordare che, tra diversi linguaggi, la corrispondenza di significato tra i termini può a volte assumere delle connotazioni semantiche differenti: come dire, delle “sfumature di significato”. La causa di tale stato di cose va riconosciuta nell’indiscussa identificazione di un linguaggio come il mezzo più appropriato di espressione scelto da una specifica cultura.




La lingua diviene quindi il primo e più significativo elemento culture-bound1 che si riscontra in una civiltà diversa dalla propria.

Nello specifico, in giapponese moderno, il termine corrispondente al concetto che “eroe” esprime è 英雄 (eiyū). La definizione sarebbe “Individuo che eccelle nelle arti letterarie e militari, dotato di straordinarie facoltà e per questo in grado di compiere imprese fuori del comune”2. Risulta subito evidente che, malgrado gli elementi coincidenti, il modello di eroe giapponese ha grande competenza di arti militari come anche di arti letterarie. In Giappone, a differenza di quanto avviene in Occidente dove la compresenza di virtù belliche e artistiche tradizionalmente risulta conflittuale, esse vengono considerate inscindibili ed entrambe necessarie alla formazione spirituale e fisica del personaggio. Le doti artistiche, letterarie soprattutto, meglio esprimono poi la sensibilità e le profonde emozioni che si agitano nel mondo interiore dell’individuo, e contribuiscono a riscattarne la brutalità delle azioni. Le differenze linguistiche offrono quindi un quadro più vasto, invitano a porre l’accento su quelle differenze culturali delle quali sono espressione.

In particolar modo, in questo elaborato mi occuperò di prendere in considerazione e analizzare quegli aspetti strettamente caratteristici della cultura giapponese come i concetti di eroismo, sconfitta e morte volontaria, da sempre legati alla più classica e celebrata tradizione eroica del Giappone; una tradizione che sin dal XII secolo, anche se prettamente limitata al ceto dei guerrieri, suggerisce le decisioni da prendere, prescrive i gesti da eseguire ed i sentimenti da manifestare.

Dopo aver citato gli elementi in comune con le civiltà greca e romana, nel primo capitolo verranno analizzate le origini di tali concetti risalenti al Giappone dei samurai e il


peso esercitato nella società dall’on (il debito di riconoscenza), citando come esempio la storia dell’archetipo dell’eroe giapponese Yamato Takeru e l’episodio storico dei Quarantasette Rōnin. Nel secondo capitolo tratterò del ruolo che la concezione di eroismo e sconfitta assunsero durante la Seconda Guerra Mondiale e dei fondamenti culturali che spinsero il Giappone a partecipare al conflitto. Il terzo capitolo verrà dedicato alla figura dei kamikaze, illustrandone caratteristiche, motivazioni e l’utilizzo che quei coraggiosi combattenti fecero della più celebre opera di etica samuraica: lo Hagakure, del quale si parlerà più dettagliatamente nel capitolo quarto.

L’elaborato si concluderà con l’influsso che i concetti di eroismo e sconfitta esercitarono sulla concezione di onore e sulla filosofia di vita di un illustre personaggio giapponese come Yukio Mishima, prendendo infine in considerazione le possibili cause che lo spinsero a compiere il plateale suicidio.

Nel comprendere e trattare aspetti complessi come l’etica e la morale alla base di una società così differente da quella occidentale, di grande utilità torneranno fonti redatte dallo stesso Mishima, nonché da illustri studiosi e antropologi (come Ivan Morris, Maurice Pinguet e Ruth Benedict) che al di là di ogni pregiudizio sono riusciti a cogliere i fondamenti psicologici e spirituali che condizionano un intero stile di vita.



Radici comuni


Va ad ogni modo ricordato che la tradizione relativa alla morte volontaria non è comunque esclusiva della società giapponese; rifacendosi alle nostre origini, risulterà infatti che nelle antiche civiltà greca e romana essa era considerata come il diritto di disporre della propria vita, e la sua attuazione pratica come la massima prova di coraggio


nel contrapporsi alle rovine imposte dalla fortuna e dalla salute. La morte inflitta dal caso (per incidente, malattia ecc.) restava una morte insignificante; l’atto volontario di uccidersi, invece, comportava l’esistenza di un significato che veniva indiscutibilmente avvertito, anche se oscuro, contorto e non immediatamente comprensibile. Ad ogni modo, il suicidio assumeva una duplice natura, rispecchiando la dualità delle strutture sociali costituenti: la comunità degli uomini liberi e la comunità degli schiavi.

Se pertanto un uomo libero arrivava a suicidarsi, tale atto era considerato legittimo in quanto conforme al diritto riconosciutogli di esercitare la propria sovranità su sé stesso. Se poi una qualsiasi ragione di carattere pubblico ne era la causa, allora il suo gesto assumeva ancor più valore. Quando invece fosse uno schiavo a suicidarsi, non essendo egli padrone di sé stesso in quanto appartenente ad un altro individuo alla stregua di un oggetto o un animale, l’atto veniva considerato illegittimo e ancor più deplorevole in quanto simbolo di protesta, ribellione e contestazione del potere e della sovranità del padrone. Motivo quindi di vergogna per il proprietario dello schiavo, che spesso cercava di nascondere l’accaduto o, all’occorrenza, calunniava il servo di essere stato un buono a nulla, un pazzo, un cattivo soggetto.

Indipendentemente dalla considerazione che si avesse al tempo, il suicidio dello schiavo rappresenta il mezzo più incisivo per porre la giustizia come valore supremo e universale, al di là della stessa vita. La morte volontaria appare infine allo schiavo l’estrema possibilità, anche se temuta e non certo facile da scegliere, di ottenere quella libertà assoluta da sempre in suo possesso. Vediamo quindi come gli ideali di giustizia e libertà, difesi dal cittadino in quanto alla base delle leggi e dei suoi privilegi sociali, nella volontaria scelta di morire dello schiavo risplendono invece come valori universali al di là di qualsiasi divisione sociale o imposizione, assolutamente puri in quanto bisogni innati ed insaziabili della natura dell’essere umano.


Col trascorrere dei secoli, tuttavia, in Occidente si giungerà ad una sempre più accesa e motivata riprovazione del suicidio. Già la speculazione filosofica dell’antichità greca individuava nell’atto un’ ingiustizia nei confronti dello Stato, subordinando la supremazia particolare dell’individuo a quella generale della comunità di cui era membro. Con l’affermazione della cristianità poi, il diritto di poter scegliere quando morire doveva cedere alla superiorità di quel bene assoluto che è Dio, unico dispensatore di vita e di morte, rifacendosi al concetto che uccidersi avrebbe assunto quel carattere di protesta nei confronti della divinità che fa dono della vita all’uomo; in tal caso quest’ultimo si sarebbe reso immeritevole dell’eternità, di quel premio ottenibile soltanto se in vita si agisce conformemente al volere di Dio. Dalla concezione metafisica deriva quindi quella condanna del suicidio tuttora in vigore nel mondo occidentale.

In Giappone invece, una tale preoccupazione per la salvezza in un domani eterno al di là della vita umana, è stata sostituita dalla convinzione che l’unico mondo possibile sia quello attuale, sensibile. La salvezza va ricercata nell’esistenza materiale, spostando l’attenzione su “ciò che accade qui e ora, in questo mondo”3. L’attenzione viene rivolta unicamente a questa esistenza e ai piaceri e doveri che da essa derivano.

Per i giapponesi, la morte volontaria non implica quindi quelle ossessioni di non poter essere degni di un altro mondo, eterno e puro. La morte fa ancora parte della vita, ed è accettata e rispettata in quanto espressione di quel non voler assolutamente rinunciare alla libertà di morire.













  1. LA FIGURA DELL’EROE NEL GIAPPONE CLASSICO



1.1 Un eroe diverso.


La cultura occidentale, improntata com’è alla venerazione del successo e delle vittorie personali, identifica i propri eroi in quei valorosi individui, uomini o donne, che riescono a far trionfare la propria causa. E questo è vero indipendentemente che essi sopravvivano per godersi la fama delle proprie gesta o muoiano nell’impresa: ad ogni modo i loro sforzi ed il sacrificio saranno stati qualcosa che valeva la pena fare, qualcosa di utile, per lo meno un esempio da tramandare alle generazioni future.

Ovviamente anche il Giappone - come ogni civiltà - ha i propri eroi di successo, ma quel che in questa complessa cultura appare più interessante è la figura di un eroe diverso.

Il contesto storico-sociale in cui vive, la viva coscienza morale contraria a qualsiasi compromesso, il forte senso di responsabilità, il coraggio e la forza di volontà lo porteranno a porsi completamente agli antipodi di quella che è l’etica del successo. Tali caratteristiche particolari ed il suo essere portato per natura a sostenere la causa perdente lo



condurranno inevitabilmente alla sconfitta. Sarà vinto non da un nemico, un avversario, ma dalla politica spregiudicata e senza remore che questi adotta con esito positivo, e alla quale l’eroe non può assolutamente chinarsi in nome della sua moralità, pilastro di condotta.

Alla vergogna causata dalla sconfitta e dalla cattura l’eroe opporrà l’estremo sacrificio per riscattare il proprio onore, dando prova di sincerità e fedeltà alla causa. Ed egli sarà pronto, agirà con impressionante fermezza di spirito e determinazione.

Traendo le conseguenze, non soltanto la sua morte rappresenterà il definitivo crollo della causa di cui si è fatto campione, ma si vedrà che la lotta sarà stata inutile e spesso controproducente. Questo è l’aspetto che più attrae un popolo come quello giapponese, estremamente affascinato dall’acuta sensibilità di quei personaggi patetici e solitari fuori del comune, impetuosi e indomiti, che con coraggio contrappongono, sino all’estremo gesto, la propria purezza e rigore morale alla condotta spregiudicata ed eticamente scorretta che tuttavia condurrebbe al successo. E’ proprio l’aver lottato con tutte le forze in nome di una causa già persa in partenza e l’inevitabile sconfitta che conduce alla morte (che sia per mano del nemico o propria), che testimonia l’inutilità delle umane gesta e la caducità della vita, ma non una condotta disdicevole.

Gli eroi della tradizione occidentale sono quasi sempre vincenti e ciò contribuisce a formare nella mente del popolo il binomio vittoria-eroe; questo genere di prode giapponese rifiuta invece il successo ottenibile a qualsiasi costo ed è persino disposto alla morte pur di mantenere la purezza dei propri intenti, compromettendo la quale scenderebbe su di lui il disonore. Il lieto fine, quello che in Occidente è rappresentato dalla strenua lotta contro ogni ostacolo e difficoltà per il raggiungimento della felicità personale, in questa parte del mondo non gode di buona fama: il sacrificio è motivo ispiratore di compassione e solidarietà, profondamente avvertiti dal popolo giapponese; dà prova della grande forza di



volontà e senso del dovere con cui il protagonista ha deciso di percorrere la retta via senza che nulla, neppure la morte, possa ostacolarlo. Percorrere la retta via significa agire in maniera consona all’etichetta, rispettare la consuetudine socialmente accettata, e ciò viene maggiormente apprezzato se in contrasto con le proprie passioni.

I sentimenti, e tra questi anche la paura, fanno indissolubilmente parte della natura dell’essere umano; è costume del popolo giapponese ben vedere chi riesce a soddisfare i propri bisogni materiali, chi è in grado di godersi la vita. La condizione è tuttavia che le passioni umane non interferiscano nell’assumere una condotta onorevole, cioè non impediscano di comportarsi secondo etichetta, secondo quanto previsto per la propria posizione in qualunque circostanza.

Di conseguenza, tanto più il sacrificio dell’individualità sarà alto, tanto più la condotta dell’uomo sarà onorevole e indice di nobiltà d’animo.

L’eroe diviene l’ispiratore di una certa simpatia per la sconfitta, dimostrando la dignità che da essa può derivare se la si affronta con una morte onorevole e decorosa. Una vita votata all’onore e alla rettitudine troverà la sua massima espressione in una morte dignitosa e conforme alle regole etiche imposte dalla società.



1.2 Il prototipo dell’eroe giapponese: Yamato Takeru.


Il principe Yamato Takeru rappresenta il modello dell’eroe giapponese descritto in precedenza. Egli appartiene a quella folta schiera di personaggi della tradizione del Giappone classico, a cavallo tra realtà storica e leggenda. “Yamato Takeru” è tuttavia una denominazione: propriamente significa “Eroe del Giappone”, in quanto Yamato ( 大和 )



era il nome con cui veniva definito il Giappone classico e Takeru ( 長ける) è un verbo che esprime il concetto di eccellere, essere superiore e, per estensione, identifica l’eroe.

Yamato Takeru fu il secondo dei gemelli nati dall’imperatore Keikō (IV secolo d.C.) e la tradizione narra che il sovrano, stupito dell’evento, abbia presentato i due figli salendo su un grande mortaio da riso ( , usu). Il primo nato venne quindi chiamato Oousu ( 大臼, “grande mortaio”) ed il futuro prode Ousu (小臼, “piccolo mortaio”). Già in un episodio della sua infanzia è possibile scorgere quei tratti tipici dell’eroe diverso, la cui moralità e abnegazione porta a gesti estremi, eccessivi ed efferati. Nell’antichità, presso la Corte, era per i principi segno di lealtà nei confronti del padre essere presenti al momento del pasto. Quando il maggiore dei gemelli mancò a tale consuetudine, l’Imperatore chiese al minore di rimproverare il fratello a suo nome. Il futuro eroe non si fermò ad un semplice rimprovero, ma addirittura lo uccise e lo tagliò a pezzi.

Questo comportamento dà un esempio del temperamento violento ed impetuoso del personaggio e del modo in cui egli considerasse la fedeltà nei confronti dell’Imperatore suo padre. Quel gesto efferato avrebbe segnato profondamente la sua vita, destinandolo a lotte continue e sforzi estremi senza che gli fosse mai concesso di tornare finalmente a Corte. L’imperatore infatti decise di allontanare il figlio, inviandolo a sottomettere le selvagge tribù che infestavano il territorio (interessante notare che Ivan Morris, uno dei più autorevoli studiosi inglesi di culture asiatiche, esplicitamente afferma che l’eroe non venne neanche provvisto di truppe per la sua impresa4). A quell’epoca il Giappone non era ancora unificato e l’obiettivo del sovrano si sarebbe raggiunto soltanto con la sottomissione di tali popoli. Missione che il prode portò a termine con estremo coraggio e dimostrando una




spregiudicata astuzia. Fu uno dei capi locali da egli sconfitto a conferirgli la denominazione di Yamato Takeru, proprio perché in quelle regioni selvagge non esistevano valorosi alla sua altezza.

Ciò nonostante, di ritorno nella capitale dopo ogni estenuante missione, egli non era mai accolto come un eroe vittorioso né gli era concesso di riposare sugli allori perché subito veniva inviato a sottomettere nuove tribù. Era chiaro che il sovrano intendesse tenere Yamato Takeru il più lontano possibile temendo il suo indomito temperamento. Il principe soffriva molto a causa dell’atteggiamento del padre, ma obbediva agli ordini senza discutere. La sua figura inizia ora ad assumere i caratteri di quell’eroe che, malgrado la profonda fedeltà all’Imperatore e le proverbiali imprese, in nome di un rigido codice di condotta votato alla lealtà e al coraggio è destinato ad un continuo errare, sino alla sconfitta e alla precoce morte. Nella parte finale della sua storia, gli avversari sono maligne divinità, come se ormai nessun nemico semplicemente umano possa contrastarlo. Le ferite riportate dai diversi combattimenti ed il suo triste destino lo condurranno ad una morte solitaria; sarà soltanto a questo punto che l’Imperatore, preso dallo sconforto per aver sacrificato il figlio divenuto solo allora prediletto, riconoscerà l’immenso valore e la fedeltà dell’eroe.



1.3 L’ on.


Quanto detto sopra risulterebbe forse più chiaro definendo una delle concezioni base su cui si fonda la società giapponese, tanto complessa dal punto di vista dei rapporti interpersonali: l’ on ( ). L’on è sempre apparso un concetto di non facile comprensione, soprattutto se lo si analizza dal punto di vista dell’etica e della morale occidentale. È bene



perciò considerare la questione nei suoi aspetti più caratteristici cercando di liberarsi per un istante da quel modo di pensare, da quella forma mentis che la nostra società richiede.

Non vi è una traduzione ben definita del termine “on”, ma esso esprime per lo più la condizione di sentirsi obbligati, in debito. L’assenza di un corrispondente preciso è dovuta al fatto che questa parola assume connotazioni di significato diverse a seconda della situazione in cui si riscontra; può infatti essere tradotto con “obbligatorietà”, “devozione”, “lealtà” o persino “gentilezza”. Ad ogni modo identifica un peso, un obbligo, un debito che si ha verso qualcuno. In tal caso, ripagare questo debito diviene per un giapponese di fondamentale importanza, a volte vitale, poiché ne va del suo stesso onore.

I giapponesi distinguono, in maniera abbastanza complessa, diversi generi di on, a seconda della persona da cui lo si è contratto. Si contrae quindi un debito nei confronti dell’Imperatore (verso il quale i giapponesi nutrono un immenso rispetto e profondo e sincero affetto), del proprio signore, del proprio maestro, dei propri genitori e così via. Il debito dell’on viene contraccambiato, o per meglio dire saldato, tramite i reciproci gimu (義務) e giri (義理). Entrambi termini traducibili con “dovere da assolvere”, ma ben distinti: il gimu rappresenta la forma più completa di pagamento, assolutamente obbligatoria ed illimitata nel tempo; con questa forma si ricambia il debito nei confronti dell’Imperatore e dei propri genitori (anche attraverso l’educazione da impartire ai propri figli, ad esempio). Il giri è invece considerato come un saldo da effettuare con matematica equivalenza rispetto al favore ricevuto ed è limitato nel tempo; può per questo motivo accumulare interesse a seconda del tempo trascorso sino al suo adempimento. In relazione all’argomento trattato, sposterei maggior attenzione sul “giri-nei confronti-del-proprio-nome”5.



Da esso infatti scaturisce il dovere di cancellare il disonore derivante da un’offesa o un insuccesso, il dovere di rispettare le regole di convenienza, come ad esempio mantenere sempre un atteggiamento decoroso e consono alla propria posizione sociale in qualsiasi circostanza, dimostrare un costante autocontrollo e non lasciar trasparire alcuna emozione in occasioni non appropriate.

La relazione tradizionalmente più importante tra quelle espresse dal giri è il rapporto che lega al proprio signore e ai compagni d’arme. Nel Giappone antico esso veniva addirittura ritenuto superiore a quello che oggi si deve all’Imperatore e che al tempo si rivolgeva allo Shōgun. Questa categoria di giri rappresentava il massimo grado di quelle virtù che un samurai dovesse a tutti i costi possedere per essere considerato dalla società, senza alcun dubbio, un uomo d’onore. Poiché il signore feudale (il daimyō) doveva provvedere al mantenimento dei suoi seguaci e guerrieri, quest’obbligo richiedeva la più devota fedeltà al proprio mecenate nei confronti del quale si era debitori di tutto, spesso anche della propria vita. Tuttavia tale codice non era a senso unico: frequenti sono infatti nella storia del Giappone episodi in cui ad un samurai offeso dal proprio daimyō fosse concesso, secondo lo stesso giri, il diritto di abbandonarlo o passare addirittura al nemico. Sia che rimanesse assolutamente fedele al proprio signore o che si vendicasse abbandonandolo in caso di offesa, la condotta del samurai restava ad ogni modo nell’ambito di quanto fosse previsto, per il suo rango, in una simile situazione. In Giappone era ed è tuttora indice di buone maniere e sobria eticità sapersi conformare a ciò che dalla società è ritenuto più consono alle circostanze.

Tuttavia, può spesso accadere che i differenti codici di comportamento di cui si è parlato nei precedenti paragrafi, entrino spesso in conflitto tra loro. Questo accade quando una circostanza può ad esempio richiedere di rispettare due categorie di on ben distinte tra loro. In tal caso, il criterio da adottare è di tipo gerarchico, dando precedenza alla categoria


che la circostanza identifica come prioritaria, ma ciò non significa che non si debba assolvere comunque ad entrambi i doveri. Tale atteggiamento è di fondamentale importanza nella collettività giapponese, dove il timore di quello che gli altri possono

pensare o dire di determinati comportamenti non previsti da ciò che è stabilito per convenzione condiziona largamente la vita del singolo. Inosservanze del genere sono causa di disonore: si viene accusati di non conoscere il giri e ciò porta a venire isolati, una sorta di morte sociale. Nell’antichità è spesso accaduto che l’unico modo di conciliare e adempiere a doveri in apparente contrasto tra loro fosse la morte, anche a costo di commettere l’ormai celeberrimo suicidio tradizionale giapponese: lo harakiri o seppuku. In altre parole, l’individuo sbaglia nel momento in cui lascia che le passioni prevalgano sugli obblighi cui deve adempiere o si trova nell’impossibilità di saldare un duplice debito.

Come valido aiuto nella comprensione dell’argomento di cui sto trattando citerò l’episodio dei Quarantasette Rōnin, da sempre uno degli atti di eroismo del Giappone dell’epoca samuraica (periodo di Edo, 1600-1868) tra i più celebrati dalla letteratura.



1.4 I Quarantasette Rōnin.


Come ogni evento che acquisti nel tempo grande notorietà e ammirazione, questo episodio storico subisce talvolta alcune varianti a seconda delle versioni; Ruth Benedict, nell’opera Il crisantemo e la spada6, narra che nel 1701 il signore di Asano fosse uno dei due daimyō scelti come addetti al cerimoniale di giuramento di fedeltà che gli stessi signori feudali dovevano periodicamente prestare allo Shōgun. Non a conoscenza di come la



tradizione prescrivesse di abbigliarsi in una simile circostanza, il signore di Asano ritenne opportuno richiedere il consiglio di un importante daimyō, il signore di Kira, che senza

dubbio avrebbe potuto essergli d’aiuto. Commettendo tuttavia l’imperdonabile errore di presentarsi al suo cospetto senza alcun dono da offrire in cambio, il signore di Asano

suscitò lo sdegno del consigliere; perciò questi decise di vendicarsi dell’affronto suggerendogli di vestirsi in modo tutt’altro che appropriato all’evento. Solo durante la cerimonia il beffato si rese conto dell’offesa subita; a questo punto il “giri-verso-il-proprio-nome” gli avrebbe imposto di lavare l’offesa uccidendo il signore di Kira, ma sguainando la spada nel palazzo dello Shōgun il signore di Asano aveva violato un tabù, macchiandosi a sua volta di offesa per aver infranto uno dei doveri dell’on nei confronti del suo superiore. Il signore di Asano poteva espiare la colpa unicamente dandosi la morte tramite seppuku. Egli era comunque caduto in disgrazia presso lo Shōgun e nessuno dei suoi parenti volle succedergli. Per questo motivo, i beni della famiglia di Asano vennero confiscati ed i samurai che vi erano al servizio rimasero senza padrone, divennero cioè dei rōnin. Per fedeltà al proprio signore, anch’essi avrebbero dovuto fare seppuku come lui, ma quarantasette di essi ritennero che una simile azione da sola non sarebbe stata sufficiente ad estinguere il debito che il rango di samurai imponeva nei confronti del loro padrone. Avrebbero prima dovuto portare a termine la vendetta da questi precedentemente intrapresa. Il gruppo s’impegnò solennemente a perseguire il compito, giurando che niente li avrebbe distolti dalla missione, anche ignorando di assolvere doveri derivanti da altri on a costo di apparire ignobili agli occhi della società. Sviarono ogni sospetto relativo ai propositi fingendosi incuranti degli obblighi etici previsti, con l’ovvia conseguenza della morte sociale, sino al momento propizio per sferrare l’attacco. Nel 1702, I quarantasette rōnin penetrarono nel castello di Kira, custodito come una fortezza, e gli imposero il seppuku. Kira si rifiutò dimostrando la sua codardia, ma la vendetta venne portata a


termine tramite la decapitazione. Solo allora essi poterono presentarsi dinanzi alla tomba del proprio daimyō. I quarantasette rōnin si erano tuttavia macchiati di disonore poiché congiurare in segreto nei confronti di chi - come il signore di Kira - ricoprisse una posizione sociale troppo vicina allo Shōgun, equivaleva a violare i loro doveri nei confronti

dello Shōgun stesso. Nel 1703 essi vennero quindi sottoposti a processo, ma dopo aver a lungo riflettuto sulla punizione da infliggere, anziché giustiziare i trasgressori alla stregua di criminali comuni, lo Shōgun decise di concedere loro l’onore del suicidio rituale: i quarantasette rōnin avevano dimostrato un ferreo rispetto del giri e ciò rappresentava pur sempre qualcosa di esemplare, degno di essere tramandato attraverso i secoli. Perciò, dopo aver vendicato il proprio signore e aver adempiuto ai doveri del giri, con il seppuku ogni obbligo contratto venne assolto.

Vediamo allora come il rispetto per le diverse categorie dell’on richieda all’uomo dall’animo nobile e coraggioso di compiere ogni sforzo possibile per ricambiare l’onere verso qualcuno, anche se questo vuol dire trascurarne o dar vita ad un altro, finché col suicidio vengono saldati entrambi.



















  1. LA FIGURA DELL’EROE DURANTE LA GUERRA



2.1 Il principio primo della guerra: imporre la gerarchia.


Le informazioni più dettagliate e attendibili relative ai costumi, le basi culturali ed il modo di pensare del popolo giapponese si ebbero in occasione della Seconda Guerra Mondiale. Questo si verificò quando per l’America divenne indispensabile raccogliere il maggior numero possibile di dati utili per conoscere e comprendere un nemico sconosciuto e completamente diverso. Partendo dal presupposto che l’esistenza di profonde differenze culturali non avrebbe dovuto rappresentare un ostacolo alla comprensione della società giapponese, ma piuttosto un ulteriore incentivo a conoscere il nemico che l’America si trovava a fronteggiare, studiosi e antropologi riuscirono a carpire molti degli allora inimmaginabili presupposti della vita giapponese, nonostante essi apparissero loro eccezionalmente strani e bizzarri. Tuttavia, nel caso in cui i risultati di tale impegno al giorno d’oggi apparissero parziali e non definitivi alla luce di ulteriori e più approfondite analisi della società giapponese, va ad ogni modo osservato che essi ricoprirono al tempo



un ruolo di importanza fondamentale e costituirono il punto di partenza per le future generazioni di studiosi e antropologi.

Con particolare attenzione alle circostanze, lo studio doveva principalmente rivolgersi a chiarire l’ideologia alla base delle convenzioni belliche del Giappone; in tale ambito, di grande considerazione ha goduto e gode tuttora l’opera della celebre antropologa Ruth Benedict, che rivolse l’attenzione particolarmente a quegli aspetti della società giapponese strettamente connessi alla concezione che essa aveva della guerra. Grazie ai suoi studi, Ruth Benedict individuò la ragione predominante dell’operato giapponese nel progetto utopico di costituire un’unità panasiatica fondata sull’organizzazione gerarchica delle varie nazioni; naturalmente, il Giappone sarebbe stato al vertice di tale gerarchia, imponendo i propri canoni di vita a tutte le altre nazioni.



2.2 Diversi fondamenti culturali.


Oltre alle suddette motivazioni, questo paese differiva dai suoi avversari anche per il modo con cui fondava le proprie speranze di vittoria. Il Giappone è da sempre convinto della superiorità dello spirito sulla materia, e quindi che una ferrea disciplina ed il rispetto delle norme etico-sociali siano fondamentali a creare nell’essere umano quell’invincibile coraggio e forza di volontà che lo portino a conseguire qualsiasi fine egli si prefigga. La materia è sì necessaria ma, destinata a perire, deve essere subordinata allo spirito, eterno e forza superiore nell’universo. Questo è il proverbiale immortale Spirito Giapponese. Nel corso della guerra fu assunto ad incrollabile fede, e costituì l’arma più potente di cui l’esercito nipponico potesse disporre. Era infatti palese l’inferiorità del Giappone in truppe e mezzi, a causa di finanziamenti stanziabili per il conflitto di certo inferiori a quelli di cui


l’America disponeva. Ma per il Comando militare giapponese questo non aveva grande importanza: alla superiorità materiale dell’avversario i nipponici avrebbero contrapposto il coraggio, la forza di volontà e lo spirito di sacrificio.

Ne Il crisantemo e la spada di Ruth Benedict7 troviamo un episodio molto rappresentativo, inerente ad un capitano dell’aviazione giapponese.

Tornato alla base dopo una missione aerea, egli si soffermò sulla pista di atterraggio per osservare quanti dei piloti della squadriglia fossero tornati per poi recarsi a fare rapporto ai superiori. Appena assolto il compito, il capitano crollò in terra senza vita, era stato mortalmente ferito durante la missione; risultò che il suo corpo era già freddo, cosa impossibile per una persona appena morta, e che quindi il suo spirito avesse sorretto la salma sino a compiere il dovere di presentare rapporto al proprio superiore. Sarebbe stato quindi il forte senso di responsabilità ed il completo controllo dello spirito sulla materia a rendere possibile questo prodigio.

Interessante ancora la tipica presa di posizione giapponese che, qualsiasi cosa avvenisse - dai fronti ceduti ai bombardamenti subiti - tutto fosse stato dettagliatamente previsto con grande anticipo e che, nella consapevolezza di tali evenienze, fossero già state approntate le contromisure necessarie. Ovviamente si trattava soltanto di voci utili a rassicurare il popolo, ma ciò deriva dal fatto che i giapponesi fondano la propria stabilità e sicurezza su un sistema di vita assolutamente pianificato, dove la maggiore minaccia a tale stabilità è costituita dall’imprevisto. Essi quindi dovevano necessariamente esserne convinti, in modo da affrontare gli eventi senza alcuna esitazione derivante dal dover prendere una decisione in modo affrettato; dovevano dimostrare il valore di tali concezioni, senza sfigurare agli occhi del mondo intero. “Dovete dimostrare il massimo senso di



dignità, per evitare che il mondo rida di voi”8 era una delle raccomandazioni ricorrenti che gli ufficiali giapponesi pronunciavano alle truppe. Ciò che maggiormente li preoccupava era l’immagine che avrebbero dato di sé al mondo, ed è ormai chiaro come una simile attenzione quasi maniacale ad apparire nel modo migliore abbia radici molto profonde nella cultura giapponese. Questo è onorevole indipendentemente dal continuare a perseguire una coerente linea di condotta o mutarla radicalmente quando le circostanze lo richiedono.

Ne è testimonianza il comportamento assunto dai prigionieri giapponesi durante il conflitto, oggetto di studio della Benedict nell’opera Il crisantemo e la spada. I soldati, non avendo ricevuto dettagliate istruzioni su come comportarsi in caso di cattura, ritennero più conveniente collaborare col nemico, certo non senza destare ragionevoli dubbi nelle truppe americane in occasione di un simile antitetico voltafaccia. I prigionieri giapponesi, ormai coscienti che il proprio onore di guerrieri fosse stato irrevocabilmente compromesso dalla cattura, non potevano porvi rimedio suicidandosi, né chiedendo esplicitamente di essere uccisi, poiché le convenzioni americane certo non lo consentivano alla luce di un decoroso trattamento dei prigionieri di guerra. Compresero di conseguenza che se mai fossero tornati in patria a guerra finita, la società li avrebbe considerati come disonorati e avrebbe serbato loro quella morte sociale tanto temuta da un giapponese. Se quindi l’imperativo era comportarsi con decoro in base alle circostanze, l’etica nella posizione di prigioniero esigeva allora di essere dei prigionieri modello. Nonostante l’incredulità delle truppe americane nel constatare l’assoluta buona fede dei catturati nel collaborare, questi si dimostrarono un valido aiuto nell’intercettare trasmissioni, individuare e distruggere gli obiettivi sensibili, effettuare propaganda americana alle truppe giapponesi e così via. Tale



atteggiamento rappresentò la norma, anche se naturalmente non mancarono prigionieri più oltranzisti che si rifiutarono di collaborare.

Ad ogni modo, ognuno di essi agiva nella maniera migliore per assolvere al debito di gratitudine nei confronti dell’Imperatore, tant’è vero che senza esitazione avrebbero combattuto armati anche solo di canne di bambù se il loro sovrano l’avesse chiesto.





























  1. I KAMIKAZE



“ Se solo potessimo cadere

come i fiori di ciliegio in primavera

così puri, così luminosi! ”9


L’obbligo di ripagare l’on contratto dall’Imperatore e dal proprio nome portava i combattenti giapponesi anche a sacrificare volontariamente la propria vita, se fosse servito ad evitare il disonore della cattura o rappresentasse l’unico modo di opporsi al nemico. Esempio ormai ben noto quello dei kamikaze ( 神風 ). Alla lettera significa “Vento Divino”.

Il termine fu in origine attribuito al provvidenziale tifone che nel XIII secolo spazzò via la flotta navale di Gengis Khan nel suo tentativo di conquistare il Giappone. Ad ogni modo, al tempo della guerra il termine usato era “Shinpū”, cioè la lettura di derivazione cinese degli stessi ideogrammi. Questa conferiva alle eroiche gesta dei combattenti suicidi quel carattere di solennità e dignità che l’equivalente giapponese non suscitava.


Di solito tale definizione è sempre stata usata con riferimento a quei piloti dell’aviazione giapponese che nel corso della Seconda Guerra Mondiale sacrificavano la vita in nome della patria, andando a schiantarsi col proprio aereo contro le navi americane.

Più precisamente indica la particolare ideologia di una categoria di combattenti ben definita. In Giappone, in una circostanza militare così critica, nuove armi erano state infatti concepite e messe rapidamente in produzione, quasi tutte fondate sulla tattica del suicidio per sfracellamento. Diversi furono i mezzi utilizzati dai kamikaze nel corso del conflitto: oltre ai più noti aerei da combattimento ricordiamo le armi navali “Kaiten” (da un antico vocabolo col significato di “Porre rimedio ad una situazione sfavorevole con un solo colpo”10 erano siluri di circa quindici metri guidati da un pilota tramite un piccolo periscopio, equipaggiati con una testata esplosiva) e i cosiddetti “Shin’yō” (“scuotitore dell’oceano”, piccole imbarcazioni a motore cariche di esplosivo). Tuttavia, essendo carenti - e a volte inesistenti - quasi tutti i materiali indispensabili alla costruzione dei mezzi, l’economicità divenne la caratteristica principale. Si pensi che per lo Tsurugi (“sciabola”, piccolo velivolo in legno dotato di una bomba), il carrello veniva espulso dall’apparecchio subito dopo il decollo per essere nuovamente utilizzato da un altro aereo.

Fortunatamente per gli americani la rudimentalità, dovuta alla mancanza di finanziamenti necessari, fece in modo che queste armi così originali non costituissero una grave minaccia alla sicurezza dei loro mezzi.

Da Ivan Morris apprendiamo che presso gli americani, i velivoli giapponesi destinati a missioni suicide erano noti come “baka bomb” (bomba idiota), definizione che eloquentemente descrive quale concezione essi avessero dello stratagemma nemico.




Tuttavia, “Ōka” ( 桜花 ) era il nome con cui venivano chiamati dai giapponesi; il nome evoca il fiore di ciliegio, simbolo di purezza ed evanescenza11.

“I fiori di ciliegio selvatico – affermava un ufficiale volontario in un’unità kamikaze – dispiegano il loro splendore, poi perdono i petali senza rimpianto: è così che noi dobbiamo prepararci a morire, senza rimpianti”12.

La nascita di queste unità “speciali” si deve all’ammiraglio Ōnishi Takijirō (1891-1945), figura di spicco nell’ambito dell’organizzazione bellica giapponese. Sin dagli inizi del conflitto, egli si rese immediatamente conto della disperata situazione in cui il Giappone versava: era nettamente inferiore per truppe e mezzi al nemico americano. Ōnishi propose una nuova tattica militare consistente nell’equipaggiare i piccoli e leggeri caccia da combattimento giapponesi con un potente carico di esplosivo, così che venissero guidati in picchiata contro i mezzi americani ed esplodessero con l’impatto; lo scopo era quindi di affondare o, per lo meno, danneggiare le unità della flotta navale nemica. Tra l’altro, i velivoli venivano forniti solo della strumentazione di bordo assolutamente necessaria alla guida, eliminando tutto ciò che era considerato secondario, come ad esempio il sistema di salvataggio del pilota (anche ammettendo l’eventualità che questi potesse salvarsi dopo aver raggiunto il proprio obiettivo, il pilota era necessariamente destinato ad un viaggio senza ritorno).

I vantaggi pratici degli aerei kamikaze erano evidenti: date le circostanze critiche, l’addestramento dei piloti suicidi venne ridotto ad un periodo di circa dieci giorni, concentrandosi esclusivamente sulle tecniche di decollo e di picchiata; di conseguenza, per aviatori con preparazione appena sufficiente a pilotare un velivolo ed esperienza nulla, tale tecnica rappresentava l’unico modo che portasse almeno a danneggiare le forze avversarie;


inoltre, i capi militari avevano raggiunto la convinzione che il nemico sarebbe stato sconfitto dalla superiorità spirituale dei kamikaze, anche perché costretto ad affrontare convenzioni belliche assolutamente sconosciute a cui non era preparato. D’altro canto, è criterio comune che Ōnishi fosse sin dal principio consapevole dell’insufficienza di tali mezzi, ma che vi individuasse l’estremo tentativo per salvare la patria dalla rovina con la nobiltà di spirito dei suoi combattenti; in caso contrario, all’incombente disfatta sarebbe inevitabilmente seguito il disonore, sentimento questo in assoluta appartenenza alla tradizione eroica nipponica, radicata ormai da secoli, in cui la salda fede nell’ideale era da sempre posta al di sopra di qualsiasi efficacia pratica.

La verità si rivelò però tutt’altro che conforme alle aspettative del Comando militare giapponese: l’effetto che avrebbe dovuto demoralizzare la reazione degli americani era stato grossolanamente sopravvalutato. I metodi adottati furono di scarsa efficacia empirica, logica conseguenza del contrapporre un equipaggiamento bellico decisamente arretrato rispetto alle imponenti e potenti navi americane. Tuttavia, nella fase conclusiva della guerra nel Pacifico, l’idea che il valore giapponese rappresentasse oramai l’estrema opportunità di contrastare la forza materiale del nemico era divenuta un atto di fede.

Tale tendenza fu testimoniata proprio dallo slancio e lo zelo con cui i giovani volontari kamikaze si proposero a migliaia per le missioni suicide, nonostante da un punto di vista occidentale possa apparire assolutamente inconcepibile che i combattenti fossero disposti ad andare incontro ad un tale destino di spontanea volontà.






3.2 Profilo di un kamikaze.


Il modello del combattente kamikaze era in genere uno studente universitario, spesso di età non superiore ai venticinque - trent’anni, senza alcuna concezione di tecniche e addestramento militare.

Queste figure erano ben lontane dalla comune immaginazione occidentale che li voleva feroci, impetuosi e fanatici militaristi. La maggioranza rispecchiava la figura di un giovane tranquillo, serio, dall’acuta sensibilità e cultura superiore alla media. Verrebbe spontaneo chiedersi se questi coraggiosi soldati partecipassero alle missioni suicide effettivamente di spontanea volontà, o se vi venissero costretti dai propri ufficiali. Se si considera l’inutilità di un pilota suicida riluttante a sacrificarsi, di certo apparirà che una simile costrizione sarebbe stata priva di senso. Al contrario, accadeva di frequente che essi scrivessero lettere ai propri superiori nel tentativo di farsi avanti, temendo di non essere ritenuti idonei per missioni suicide particolarmente delicate ed importanti.

Ai kamikaze che avessero compiuto con successo il proprio sacrificio, magari causando ingenti danni alle truppe avversarie, venivano di consuetudine attribuiti grandi onori e promozioni postume. Per noi, senza dubbio un magro compenso per il sacrificio di una vita umana, ma per quei giovani, sapere che dopo la propria morte avrebbero ottenuto un tale riconoscimento ufficiale del valore e dell’onore dimostrato rappresentava di certo un incentivo più che valido.

Ai combattenti kamikaze veniva ripetuto senza tregua che le tattiche suicide rappresentavano l’unica possibilità rimasta per evitare la sconfitta e preservare il Giappone dalla catastrofe, ma è chiaro che la stragrande maggioranza di essi fosse ben consapevole dell’inefficacia di quegli attacchi, che il loro imminente sacrificio sarebbe stato vano, ma pur sempre onorevole.


Di certo molti di essi avranno conosciuto momenti di dubbio ed intenso terrore al pensiero della fine ormai prossima, ma possiamo ritenere che la cieca fede nell’ideale ed il sostegno delle tradizioni giapponesi possano averli aiutati a superare lo sconforto. I volontari non si abbandonarono mai alla disperazione o ad eccessi isterici, mantenendo invece un morale costantemente alto ed un tasso di partecipazione di gran lunga superiore al numero dei mezzi a disposizione. Le rare occasioni di tensione si manifestavano soltanto quando, coi volontari in esubero per la missione prevista, gli ufficiali procedessero personalmente alla selezione. I candidati esclusi si facevano prendere da amara delusione e un certo autodisprezzo per non essere stati evidentemente all’altezza, tanto che l’immensa gioia di chi era stato scelto spesso veniva offuscata dal mal celato sconforto dei non ammessi. Ulteriore motivo di tensione era la preoccupazione che le missioni kamikaze potessero cessare da un momento all’altro, per carenza di risorse o con la fine della guerra, e che quindi essi non avrebbero più avuto l’occasione di sacrificarsi per la patria e seguire l’esempio dei compagni che li avevano preceduti. Ancor più esasperato era poi lo stato d’animo di quei volontari che, per miracolo, fossero sopravvissuti all’attacco.

Appare evidente (anche se spesso esageratamente eccessivo per un occidentale) che per questi giovani fortemente motivati e preparati psicologicamente a rinunciare alla vita al di là di qualsiasi desiderio o sentimento o spirito di sopravvivenza, l’aver fallito portasse ad una traumatizzante frustrazione morale; frequentemente chiesero al nemico di essere uccisi o di lasciare che si suicidassero, ma invano. Lo sconvolgimento psicologico derivante era tale che alcuni prigionieri avrebbero impiegato anche anni per riprendersi. Alla luce di tali affermazioni, da Ivan Morris apprendiamo che gli esperti hanno ritenuto che molti piloti kamikaze, resisi conto tempestivamente di non poter portare a termine la missione in corso a causa di guasti tecnici o errori di valutazione, scegliessero



deliberatamente di precipitarsi in mare piuttosto che sopravvivere con le conseguenze derivanti13.



3.3 Motivazioni.


Per quanto poi concerne le ragioni che potessero spingere ad una partecipazione tanto attiva, esse traspaiono chiaramente dalle raccolte di lettere, diari e poesie appartenenti agli aspiranti kamikaze. E’risultato subito evidente che l’odio verso il nemico o il desiderio di vendicare i compagni caduti fosse inesistente; ricorrente è invece il motivo dell’on (si veda cap. 1.3, pag. 10).

In primo luogo il dovere di difendere il Giappone, loro paese natale, da ogni ingerenza straniera e l’Imperatore che ne rappresentava l’unità e le virtù. Ancora il senso di riconoscenza nei confronti della famiglia, spesso chiedendo perdono perché la morte avrebbe impedito all’aspirante suicida di ripagare tutte le attenzioni ed i sacrifici dedicatigli dai genitori. Più spesso, i kamikaze consideravano la propria morte come un duplice sdebitamento nei confronti dell’ Imperatore e della famiglia insieme.

Quale che fosse il motivo ispiratore del sacrificio, senza dubbio l’elemento comune che maggiormente suscita ammirazione resta il makoto - denotando purezza, abnegazione e assoluta integrità morale è considerato la massima virtù dell’eroe giapponese - con cui questi soldati scelsero spontaneamente un destino di morte che, tuttavia, avrebbe assicurato loro un posto d’onore nell’ambito del più apprezzato e commovente eroismo giapponese.











  1. LO HAGAKURE



4.1 Origini.


Lo Hagakure è la trascrizione di pensieri, precetti e massime del samurai Jōchō Yamamoto, operata da un suo discepolo.

Jōchō visse a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo e dopo la morte del suo signore (il daimyō del feudo di Saga - Saga Han), per fedeltà il samurai avrebbe voluto compiere il suicidio; invece, il successore al governo del feudo vietò tramite un severo editto che tali atti avessero luogo e Jōchō allora decise di allontanarsi dalla società, costruendosi una capanna di foglie ed intraprendendo una vita da eremita.

L’opera è composta da undici volumi dei quali solo il primo ed il secondo contengono i precetti veri e propri, mentre negli altri si parla delle gesta del daimyō e dei samurai appartenenti al feudo di Saga e ad altri.

Derivante dall’unione di 葉 – ha, “foglia”– e 隠れ – kakure, nominalizzazione del verbo 隠れるkakureru “nascondersi”– il termine “Hagakure” è stato tradotto con “nascosto tra le foglie”. Sono state avanzate diverse ipotesi sulle ragioni di un tale


significato, ma la più comune è quella relativa alla rinuncia al mondo che Jōchō scelse, vivendo rintanato in una capanna di foglie; luogo, tra l’altro, dove egli dettò i suoi insegnamenti.

L’opera fu accessibile per pochi eletti sino alla seconda metà del 1800, ma al grande pubblico venne estesa soltanto in occasione di quei fervori nazionalistici che accompagnarono la partecipazione del Giappone alla Seconda Guerra Mondiale. Dalle squadre suicide kamikaze venne poi adottato in qualità di codice di condotta del guerriero, considerato valido per l’epoca moderna come per quella antica senza alcun bisogno di adattamento.



4.2 Un manuale per suicidi?


L’eroe che solitario si scaglia contro i nemici, di gran lunga superiori, appartiene a quella tradizione giapponese che vuole il prode spinto a combattere sino allo stremo delle forze; egli è sorretto soltanto dalla cieca fede in una causa che, anche se disperata, è per lui assolutamente giusta. L’eroe sceglie spontaneamente di perseguire un obiettivo al di sopra delle capacità umane, un cammino che la ragione ed il buon senso giudicherebbero assurdo e da pazzi intraprendere: inevitabilmente esso condurrà alla morte. Questo è il destino dell’eroe, più precisamente del guerriero: il bushi ( 武士 ) , meglio noto forse come samurai ( ). La morte e la follia, unite insieme nel termine “shinigurui” (da 死ぬ – shinu, “morire” - e 狂い – kurui, “folle”) esprime la concezione che il guerriero deve giungere alla morte eroica liberandosi dall’individualismo e dalla ragione; queste, imponendo prudenza ed il perseguire gli interessi personali, lo condurrebbero ad una


disonorevole preservazione della propria esistenza. L’eroe deve giungere alla “follia di morire”14.

“Ho scoperto che la Via del Samurai è la morte”15 e ancora “Per essere un perfetto samurai è necessario prepararsi alla morte da mane a sera, giorno dopo giorno”14 sono parti di una stessa massima tra le più note dello Hagakure, di certo il più autorevole dei trattati sul bushidō, la via del guerriero.

Ogni giorno il guerriero deve meditare sulla propria morte, su tutti i possibili modi con cui essa possa sopraggiungere; la costante e profonda meditazione fa sì che il bushi sia sempre in guardia, automaticamente pronto ad accoglierla quando verrà il momento, agendo con sangue freddo e fermezza di spirito. Nessun timore, nessuna esitazione potranno distoglierlo dal suo obiettivo di morire perché il guerriero sarà già preparato ad affrontare le circostanze nel modo più consono alla sua posizione e a ciò che è giusto fare; egli si è ormai liberato da quell’individualismo generato dal raziocinio, giungendo alla più assoluta imperturbabilità che sola può condurlo alla risoluzione istintiva, senza alcuna mediazione dell’intelletto che porterebbe ad agire erroneamente.

Non stupisce quindi come, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, lo Hagakure sia divenuto il breviario, il vademecum del kamikaze. Doveva ispirare al combattente suicida quella ricerca e quel culto della morte finalizzati all’onore e all’impresa eroica, doveva trasformarlo in un moderno samurai. L’antico guerriero giapponese imparava a “considerare la vita più leggera di una piuma”16 e a sottomettere ogni desiderio, anche quello innato della sopravvivenza, a ciò che era giusto fare.



La morte, costantemente meditata e preparata con estrema cura, diveniva un deliberato atto di volontà, stendardo di onore per l’animo nobile che si trovasse senza alcuna via di scampo a cadere sconfitto nelle mani del nemico. Si legge nello Hagakure: “Un samurai che non sia pronto a morire in qualsiasi momento morrà, inevitabilmente, di morte ignominiosa. Invece il samurai che vive la sua vita in costante preparazione alla morte, come potrebbe mai comportarsi in modo indegno?”17 E ancora “Non si possono compiere imprese egregie con una forma mentis normale. Bisogna diventar fanatici e farsi prendere dalla mania di morte”18.

Il suicidio diviene il rifiuto di riconoscere e sottomettersi alla supremazia del vincitore, cosa questa che getterebbe il disonore sul guerriero, sulla sua famiglia ed il suo signore – tutte entità alle quali il samurai era indissolubilmente legato dagli obblighi di riconoscenza impostigli dall’on (si veda cap. 1.3, pag. 10). Se considerato sotto questa luce, il suicidio appare quindi lontano dal rappresentare una comoda e vile scappatoia. Si rivela un atto di pura volontà: la volontà di rifiutare la vita e morire liberamente. Cadere in battaglia o commettere suicidio se si sopravvive è ugualmente onorevole. La forma tradizionale del suicidio, lo harakiri (o seppuku), rappresenta poi la suprema espressione del libero arbitrio umano, finalizzato a preservare il proprio onore, da sempre principio motore ed ispiratore nella civiltà giapponese.

Ad ogni modo, lo Hagakure non è semplicemente un manuale per suicidi, in quanto fornisce anche massime morali e consigli di ordine pratico sull’atteggiamento più consono che un samurai deve assumere in diverse circostanze (ad esempio come comportarsi durante un banchetto, allevare i figli, licenziare un servo e così via).



Non è soltanto un libro sulla morte, ma una riflessione sulla vita; ne è eloquente esempio la massima “La vita umana non dura che un istante. Si dovrebbe trascorrerla a far quello che piace. A questo mondo, fugace come un sogno, vivere nell’affanno facendo solo ciò che dispiace è follia”19. Suonerà allora come l’equivalente giapponese del carpe diem,

“cogli l’attimo”: sfruttare al meglio ogni circostanza, godere della bellezza di ogni cosa che si presenta, perché la vita umana è breve e occorre trascorrerla nel modo più piacevole.

Sembrerebbe quindi una contraddizione in termini, ma il vero significato è apprezzare a fondo anche le cose più semplici della vita proprio perché è necessario essere pronti a rinunciarvi all’istante, morendo onorevolmente quando il codice del samurai lo richiede. Vita e morte appaiono quindi come due facce della stessa medaglia.

Nello Hagakure emerge spesso un’accesa critica da parte di Jōchō ai mutamenti e alla degenerazione del Giappone dell’epoca. I temi frequenti riguardano l’eccessiva attenzione all’estetica, il gusto per il lusso e la stravaganza, l’effeminarsi dell’uomo, la predilezione per la futilità, la perdita delle tradizioni e dei valori morali sostituiti dal materialismo e dall’ambizione economica. Tutti mali che cominciarono ad affliggere la società giapponese già dal XVIII secolo.



4.3 Yukio Mishima.


Della generazione di quei giovani giapponesi che non vennero decimati dalla guerra, ma che risentirono notevolmente di quella tendenza suicida che raggiunse il culmine intorno agli anni Cinquanta, il più celebre fu di certo Yukio Mishima (1925–1970).



Scrittore di romanzi acclamati dal pubblico e ben accolti dalla critica - ma anche artefice di iniziative teatrali e cinematografiche – con l’opera Confessioni di una maschera Yukio Mishima raggiungerà ben presto la notorietà, quel consenso e quelle soddisfazioni personali oltre le quali un giovane potrebbe non aspirare più ad altro.

Di certo un personaggio particolare: narcisista, eccentrico ed esibizionista, portato all’ostentazione del proprio successo e della propria ricchezza, con un particolare gusto per l’eccesso, Mishima lascerebbe intravedere la reazione psicologica di un giovane che conquista fama e benessere economico in quel clima di disfattismo, frustrazione e disgusto di sé che caratterizzava il Giappone dopo la sconfitta del 1945. La sua affermazione “No, io non sarò certo un vinto!”20 diviene lo stendardo di una volontà di successo a cui giungerà solo attraverso una rigorosa disciplina in ambito lavorativo.

La passione per la letteratura occidentale lo porta a viaggiare in tutta l’Europa, ma il viaggio in Grecia del 1952 inciderà particolarmente: il culto delle divinità – soprattutto Apollo, mitico dio del Sole, simbolo di forza e vigore – e lo zelo con cui gli antichi greci si dedicavano alla cura del corpo daranno inizio alla metamorfosi del personaggio.

Il Mishima adolescente era un giovane pallido, gracile, dalla salute cagionevole (motivi per cui, tra l’altro, venne ritenuto non idoneo al reclutamento durante la Seconda Guerra Mondiale), ma ora lo contraddistinguono un’intensa vitalità e dinamismo che lo porteranno ad una sempre crescente brama di successo, forza, benessere fisico e felicità. Inizia a praticare il sollevamento pesi, le arti marziali, si dedica con tenacia alla realizzazione di una muscolatura vigorosa elaborata in palestra. Ma questo suo culto della vita è soltanto una maschera sotto la quale si celano e agiscono quelle passioni negative, forse tipiche di ogni originale ed eccentrico artista; parliamo di quel lato oscuro che induce al sadomasochismo e all’auto-distruzione, aspetti che troveranno libero sfogo al culmine


della sua esistenza. Ne fa oggetto della funzione catartica attribuita alle sue opere. In altre parole, rendendo espliciti al pubblico quei sentimenti e quelle convinzioni così intime che lo stesso Mishima avrebbe vergogna di riconoscere a sé stesso, egli riesce ad esorcizzare quel senso di solitudine e vergogna che da sempre affliggono la sua personalità. Cerca di trovare la cura a queste passioni esternandole agli altri, nel tentativo di giustificarle facendosi comprendere dal pubblico.

Profondamente colpito dal fascino della tragedia, egli è cosciente dell’effimera caducità della bellezza, sa bene “che il genio si consuma e muore presto”21. Mishima vede quindi nella tragedia una degna chiosa allo splendore raggiunto, desidera scomparire finché è ancora all’apice del successo, prima che il trascorrere del tempo ne offuschi la fulgidezza e conduca alla degenerazione del corpo.

Convinto allora della necessità di un evento che lo faccia ricordare per sempre, e della sua urgenza (aveva già quarant’anni), tornato in patria si dedica in tutto e per tutto alla missione di restaurare le condizioni del Giappone antecedenti al 1 gennaio 1946, data in cui venne dichiarata la resa e la totale smilitarizzazione del paese. Mira ad abolire il regime costituzionale scaturito dalla sconfitta.

In particolar modo, intende ripristinare lo spirito, le tradizioni secolari e la coscienza di sé che da sempre hanno contraddistinto la nazione nipponica. Mira a risvegliare, soprattutto nell’esercito ridotto a Forza di Autodifesa, la filosofia di vita del bushidō. A tal proposito farà dello Hagakure il testo sacro ispiratore di una missione così alta. L’opera di etica samuraica diventerà il ricettacolo di insegnamenti e l’ispiratrice di una condotta votata all’onore, alla volontà, al gesto eroico e alla morte.

Giunto a questo punto, Mishima si rende conto che non basta avere una causa, è necessaria una comunità di seguaci che vi si dedichi. L’ideale, unito al suo carisma, porterà


alla costituzione della Tate no kai (la “Società dello Scudo”), della quale faranno parte alcune decine di studenti poco più che ventenni. Dopo aver acquisito una certa preparazione militare, si procede ad architettare nei minimi dettagli un piano che possa realizzare l’intento che questo piccolo ma motivato drappello si è proposto.

Il mezzo più efficace sarà un colpo di stato che faccia ammutinare i soldati contro un governo che li ha privati del diritto di conformarsi alla vera essenza del guerriero, di seguire la Via del Samurai.

In La morte volontaria in Giappone di Maurice Pinguet22, troviamo la descrizione dell’impresa di Mishima: il 25 novembre 1970, accompagnato da quattro suoi seguaci, si presentò al quartier generale della Forza di Autodifesa a Tokyo. Armati unicamente di spade e daghe, presero in ostaggio il comandante in capo e, minacciando di ucciderlo, dettarono le condizioni: i militari della base, circa un migliaio di uomini, avrebbero dovuto adunarsi e ascoltare in silenzio il proclama che Mishima avrebbe letto dal balcone dell’ufficio del generale. Il tutto veniva trasmesso in diretta in tutto il paese dalle troupe di giornalisti che accorsero per documentare l’evento.

Il suo appello non venne accolto, al contrario destò indifferenza e scherno. Convinto allora del fallimento del suo tentativo di risvegliare nei soldati quella coscienza di guerriero che sola avrebbe potuto ripristinare la situazione, Mishima tornò nell’ufficio e si preparò a compiere il seppuku, testimoni il generale prigioniero ed i compagni della “Società dello Scudo” che lo appoggiavano nella missione. Inginocchiatosi, dopo aver ripetutamente inneggiato all’Imperatore, si trafisse il ventre con una preziosa katana del XVI secolo, portando il taglio da destra a sinistra secondo la tradizione classica. Uno dei compagni allora, in veste di kaishakunin, avrebbe dovuto porre fine al dolore e allo spasmo del suicida mozzandogli la testa con un sol colpo - compito che, tra l’altro, venne portato a


termine da un terzo, a causa della concitazione e l’inquietudine del momento - e procedette a suicidarsi anch’egli; gli altri tre dovevano sopravvivere per volontà del loro maestro.

Così, all’età di 45 anni, moriva Yukio Mishima.



4.4 Lo Hagakure visto da Mishima.


Mishima cominciò a leggere lo Hagakure durante la guerra, quando cioè il libro godeva di quel diffuso consenso popolare generato dai fervori nazionalistici in vista del conflitto. Tuttavia, egli ne comprese il profondo significato soltanto quando, nell’immediato dopoguerra, l’opera venne subito accantonata perché considerata pericolosa e belligerante.

In esso Mishima riusciva a identificare il proprio spirito: lo Hagakure rappresentava la base della sua moralità.

Autore di un commento allo Hagakure, in cui ne prende in considerazione soltanto i primi tre capitoli, oltre che alla morte Mishima dà risalto all’onore, alla volontà, alla forza d’animo, all’azione e alla passione; doti esemplari di cui gli antichi fondatori del Giappone fecero motivo di onorevole vita e altrettanto onorevole morte.

Inoltre, la severa critica dello Hagakure alla società dell’epoca rappresenta un’incredibile predizione dei mali che affliggono il Giappone dell’età moderna. Perciò tale critica viene da Mishima attribuita al presente, caratterizzato dalla disgregazione della società, da eccessi, esasperato materialismo e incomunicabilità tra le persone. Soprattutto questo induce l’individuo ad uno spiccato senso di solitudine. Nell’offrire un quadro critico della realtà, l’opera di Jōchō propone la costituzione di una società perfetta. Si tratta di un



modello da seguire per rendere migliore la vita giapponese, ma è e resta pur sempre un ideale utopico, impossibile da realizzare.

Mishima era fermamente convinto che il Giappone del dopoguerra, ossessionato dalla prosperità economica e dal progresso, avesse ormai rinnegato la sua vera natura. L’utilitaristica ipocrisia della politica, perduta ormai in costanti contraddizioni volte alla difesa di interessi personali e all’ambizione di potere, aveva fatto dimenticare al popolo lo spirito nazionale, la tradizione e gli stessi fondamenti del paese.

La resa incondizionata e la sistematica smilitarizzazione con le quali si concluse la Seconda Guerra Mondiale, avevano fatto sì che il Giappone passasse sotto il controllo delle autorità americane e che, col tempo, la sconfitta rappresentasse il motivo ispiratore di una nuova vita sullo stampo della civiltà occidentale.

Tutto questo era per Mishima inconcepibile. Egli sperava ardentemente in un risveglio del suo paese, in una presa di coscienza che ristabilisse la vera essenza del Giappone; non potendo confidare quindi nei politici, né nel popolo ormai assoggettato alla nuova mentalità, le sue aspettative ricaddero sulla figura del guerriero, rappresentato allora da quella Forza di Autodifesa, con mansioni di ordine pubblico e di polizia, a cui la potenza militare nipponica era stata ridotta.

L’esercito avrebbe dovuto assolvere al suo compito principale: difendere la patria, proteggere la storia, la cultura e le tradizioni del Giappone, auspicando e sostenendo attivamente un ritorno alle origini. Obiettivo questo che non poteva più essere perseguito da quell’istituzione ormai ridotta a nient’altro che un burattino nelle mani della spregiudicata e ipocrita politica. Il bushi sarebbe stato ormai dimentico di quel secolare stile di vita incentrato sull’onore, la giustizia e la tradizione.




L’indignazione, le speranze deluse, la frustrazione derivante dall’essere ormai tra i pochi incompresi fautori di un ritorno alla tradizione non potevano continuare ad essere ignorate.

Il moderno samurai ritenne quindi che un suicidio rituale rappresentasse il modo più risonante ed efficace per testimoniare l’esistenza di un valore supremo, più alto persino del rispetto per la vita. “Questo valore non è la libertà, non è la democrazia. È il Giappone. Il Paese della nostra amata storia, delle nostre tradizioni: il Giappone”23.

Il suicidio quindi, che in epoca feudale rappresentava un’estrema affermazione di coraggio e determinazione, diviene per Mishima una deliberata forma di autodistruzione dell’era moderna. Il suo fine è esprimere la protesta dell’individuo dall’animo nobile, inglobato da una società massificata e materialista sorda al suo grido disperato.

1 Definizione utilizzata dai linguisti per identificare quegli aspetti assolutamente peculiari di una cultura ad essa strettamente correlati.


2 Definizione tratta dal dizionario monolingue giapponese Sakahiki Hirojihen, Iwanami Shyoten, quinta edizione.

3 Maurice Pinguet, La morte volontaria in Giappone, Milano, Garzanti, 1985, pag. 22.

4 Ivan Morris, La nobiltà della sconfitta, Parma, Ugo Guanda Editore, 1983, pag. 17.

5 Ruth Benedict, Il crisantemo e la spada, Bari, Dedalo, 1968, pag. 130.

6 Ruth Benedict, op. cit., pp. 219-226.

7 Ruth Benedict, op. cit., pag. 34.

8 Ruth Benedict, op. cit., pag. 38.

9 Ivan Morris, op.cit., pag. 267, haiku scritto da un pilota kamikaze dell’unità “Sette Vite”, morto in combattimento nel 1945 all’età di ventidue anni.

10 Ivan Morris, op. cit., pag. 328.

11 Ivan Morris, op. cit., pag. 267.

12

Ivan Morris, ibidem, pag. 280.

13 Ivan Morris, op. cit., pag. 311.

14 Ivan Morris, op. cit., pag. 296.

15

Precetto n. 02 “Decisione”, in Yukio Mishima, La Via del Samurai, Milano, Bompiani, 1983 (“I quarantotto principi vitali di Hagakure”, pag. 75).

16

Ivan Morris, op. cit., pag. 304.

17 Precetto n. 11 “Costante rassegnazione alla perpetua minaccia della morte”, in Yukio Mishima, op .cit., pag. 86.

18

Precetto n. 20 “Mania di morte”, in Yukio Mishima, op. cit., pag. 98.

19

Precetto n. 41 “Ancora sull’epicureismo”, in Yukio Mishima, op. cit., pag. 116.

20 Maurice Pinguet, op. cit., pag. 361.

21 Maurice Pinguet, op. cit., pag. 363.

22 Maurice Pinguet, op. cit., pp. 370-373.

23 Dal proclama di Mishima del 25 novembre 1970, in Yukio Mishima, Lezioni spirituali per giovani samurai, Milano, Feltrinelli, 1990, pag. 126.













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