INDICE
Introduzione
pag. 7
Avvertenza
1 Il Karate-do, origini leggendarie e origini storiche
pag. 11
La leggenda
La storia: Okinawa e le Riokyu
I Satsuma
2 Nascita del Karate
pag. 16
L’influenza Cinese
L’elaborazione del Karate ad Okinawa e la diversa influenza di Cina
e Giappone
I primi maestri: Kanga Sakugawa e Sokon Matsumura
3 L’emergere del Karate moderno
pag. 20
Okinawa all’inizio dell’era moderna
Il Karate entra nelle scuole
4 La scuola Shotokan
pag. 23
Gichin Funakoshi
Dalla “Mano di Cina” alla “Mano Vuota” alle arti del Budo
La sconfitta del Giappone
Le correnti dello Shotokan
5 Shigeru Egami
pag. 29
L’efficacia
La via di Heiho
Il misticismo di Egami
La malattia e la morte
Il Toate
6 La diffusione del Karate nel mondo
pag. 35
Giapponesi ed Americani
L’Imperatore
La diffusione in America
La diffusione in Europa
1

Tetsuji Murakami e lo Shotokai
La diffusione in Italia
7 Zen e arti marziali
pag. 43
Il Medioevo Giapponese
Lo Zen che può essere descritto non è lo Zen
La meditazione Zazen
Dal Canone Pali discorso numero 10
La Vacuità
Divergenze
Il Karate come mezzo di realizzazione di sè
L’autodisciplina
Una diversa concezione
Tecniche di potenza e tecniche di saggezza
Muga ovvero il vuoto
La perfezione qui ed ora
8 Il Kata
pag. 57
I Kata del Karate
Il Do o la via
Il Sakoku o il grande isolamento
Il Giappone fino al Sakoku
Esiti e fine del Sakoku
9 Il Budo
pag. 67
Il Ki
L’Hara
Il successo delle discipline interiori e l’approccio scientifico
Cinema ed Arti Marziali
Per finire
Bibliografia
pag. 80
Allegato A
pag. 84
Allegato B
pag. 89
2

Allegato C
pag.
93
Allegato D
pag.
95
Allegato E
pag. 101
Allegato F
pag. 104
Allegato G
pag. 106
Allegato H
pag. 108
3

4

“Nulla che valga la pena di imparare può essere insegnato”
Josè Ortega y Gasset
5

6

Introduzione:
Il Karate è un arte marziale tradizionale giapponese, esso trae le
sue radici dalle più antiche arti marziali cinesi.
Questa arte è stata formalizzata e codificata nella prima metà del
ventesimo secolo, nel secondo dopoguerra si è affermata nel mondo,
esportata inizialmente dai soldati delle truppe di occupazione americane.
Il karate è così divenuto una delle arti orientali maggiormente diffuse, e
conta milioni di praticanti nel mondo.
Esistono oggi decine di diverse accezioni di Karate a seconda dello
stile, della tecnica, del maestro. Occorre prima di tutto fare una
importante distinzione, tra quello che viene definito Karate tradizionale e
il karate sportivo.
Il karate sportivo, essendo stato strutturato in modo da poter essere
valutato da arbitri e in maniera da non causare a chi lo pratica traumi o
lesioni pericolose, ha perso in parte o del tutto il significato iniziale
dell’insegnamento.
Diversamente il karate tradizionale è basato sul
“colpo definitivo”
ovvero quello che mette fuori combattimento l’avversario nel più breve
tempo possibile.
Nel karate sportivo, la massima enfasi viene messa
nell’insegnamento di tecniche e colpi che possano essere facilmente
riconosciuti ed assegnati come punti dagli arbitri, per questo motivo la
tattica di un combattimento vincente potrebbe anche essere, quella di
subire diversi colpi, a patto di segnarne uno in più dell’avversario.
Una situazione del genere non è prefigurabile nel karate tradizionale,
questa infatti è un arte di difesa e contrattacco (e mai di attacco) nella quale
si è addestrati ad immaginare di lottare per la vita, subire un colpo potrebbe
essere enormemente penalizzante o mortale, il colpo che si attua deve
risultare altrettanto pericoloso per l’avversario, l’unica valutazione possibile
è l’efficacia, non possono evidentemente esistere gare di combattimento in
questa visione.
7

La differenza più evidente tra le due accezioni è quella che
intercorre nel progresso tecnico, infatti si può osservare che, mentre il
karate tradizionale consente al praticante una crescita armonica e lineare,
nel karate sportivo la crescita è parabolica e legata, come in ogni altro
sport, all’ età, allo stato fisico e all’allenamento dell’atleta.
Proprio questa differenza è centrale nell’osservazione del karate
tradizionale
(non ci occuperemo se non marginalmente di quello
sportivo) da una prospettiva sociale, per effettuare questa osservazione si
sono identificati nella pratica delle arti marziali tradizionali, alcuni
concetti, intimamente legati alla cultura giapponese e alla storia del
Giappone, e si cercherà di compararli con concetti occidentali. In breve,
gli elementi identificati sono i seguenti:
KI
- genericamente
“spirito”, ma in una accezione molto più
complessa ed avvolgente della nostra (due giapponesi si saluteranno non
chiedendosi
“come stai?” ma “com’è lo stato del tuo ki?” o faranno
osservazioni non sul tempo atmosferico ma sul ki del tempo
atmosferico)
DO - genericamente
“via”, ma in una accezione di crescita
spirituale, essere nel DO per la cultura giapponese significa essere in
quello stato quasi mistico in cui un artista compie la sua opera o un atleta
ha una grande performance, lo stato psicofisico del danzatore mentre
danza è molto adatto per definire questo concetto, una meditazione in
movimento.
KATA - genericamente
“forma” intesa come cerimonia per la
trasmissione di una conoscenza, sono kata ad esempio le forme perfette
ed immutabili della cerimonia del te. Secondo la definizione del
sociologo e maestro di karate Kenji Tokitsu: “Il kata implica un quadro
rigido, che definisce quello che si ricerca, il mondo interiore ed esterno
e, perciò stesso, il posto che si occupa in relazione agli altri”
8

BUDO o BUSHI-DO - genericamente la
“via del guerriero”.
Secondo la definizione del sociologo e maestro di karate Kenji Tokitsu:
“un fenomeno culturale dato da un espressione fisica legata ad un
determinato stato d’animo e prodotto dalla cultura tradizionale
giapponese”. Comprende l’insieme delle arti marziali tradizionali.
HARA - Dan tien per i cinesi, si intende con questo termine il
“centro vitale” luogo dove risiede il KI, posto anatomicamente circa tre
dita sotto l’ombelico, dove dovrebbero acquietarsi le sensazioni,
spegnersi le ansie.
Dopo aver collegato il karate come arte marziale interna al Budo e alla
società che lo ha prodotto, cercherò di analizzare i motivi della la sua
espansione e del suo successo in occidente, particolarmente in
considerazione del fatto che oggi sono proprio le pratiche tradizionali
non competitive e meditative ad essere ricercate dal maggior numero di
persone, anche e soprattutto qui, dove la pratica sportiva è stata
maggiormente associata alla competizione
9

Avvertenza:
1. Vista la rilevante presenza di parole di origine straniera nel testo, si è
deciso di non applicare la codifica standard che le vorrebbe scritte in
corsivo , per salvaguardare la leggibilità del testo.
2. Non è stato possibile reperire una bibliografia strettamente
sociologica, l’argomento non è stato probabilmente trattato diffusamente
in sociologia, pure, molti dei testi presi in considerazione hanno un
taglio decisamente sociologico, come spero emergerà dalla mia
trattazione.
10

O Shariputra, la forma è vuoto / il vuoto è forma. / La forma altro non è
che vuoto, / il vuoto altro non è che forma." / "O Shariputra, tutto ciò che
esiste / è espressione del vuoto …
(Sutra del cuore, tradizione Zen Soto)
Il Karate-Do
1- Origini leggendarie e origini storiche
La leggenda:
Uno dei “koan 1 ” del buddismo zen recita: “qual è il
motivo per cui il Primo Patriarca è venuto dall’ occidente?”.
Questo
“koan” è da migliaia di anni fonte di speculazione
intellettuale e portatore di illuminazione agli adepti dello
Zen. Secondo una certa tradizione relativa alla genesi delle
arti marziali tradizionali giapponesi alcune cose sono
successe in oriente in seguito alla venuta in Cina del Primo
Patriarca 2 .
Quando si parla di Primo Patriarca nell’ottica del buddismo zen
(Ch’an 3 in cinese) si intende la figura di Bodhidharma 4 . Bodhidharma
era un monaco, principe, appartenente alla casta guerriera degli Ksatriya,
originario di Sry Lanka, giunto in Cina intorno al ‘520 per diffondervi il
buddismo, come molti suoi correligionari in quel periodo.
1 frasi su cui meditare assegnate dal maestro all’ allievo nell’insegnamento dello Zen
2 E’ tipico della cultura giapponese cercare una genesi nel divino per ogni tipo di attività, non a
caso i giapponesi chiamano il loro paese “casa degli dei” e considerano divine le origini della
famiglia imperiale.
3 Si traduce come “meditazione”
4 Damo in cinese, Daruma in giapponese
11

A quel tempo l’imperatore era Liang Wu (501-557) della dinastia
Liang. Bodhidharma giunse in un primo tempo a Canton, dove Shaou
Yon, il governatore della città, che lo apprezzava, consigliò
all’imperatore i suoi insegnamenti. Sull’incontro tra Bodhidharma e
l’imperatore sono raccontati vari aneddoti, di fatto pare che il figlio del
cielo non gradisse la mancanza di rispetto e la durezza dei modi di
Bodhidharma e così, per toglierselo di torno, lo inviasse come priore al
tempio di Shaolin.
Arrivato a Shaolin, Bodhidharma impose una nuova regola, egli
trovava che i monaci, stremati dai digiuni e infiacchiti dalle lunghe ore
di immobilità dovute alla meditazione, non
avessero possibilità di raggiungere l’essenza
della dottrina del Budda, la “via di mezzo”.
La dottrina che Bodhidharma introdusse
a Shaolin comprendeva un addestramento
fisico improntato sulla respirazione. Lo scopo
era acquisire una buona forma fisica e
raggiungere l’unione di spirito e corpo. L’
Ekkinkyo, come si chiamò il metodo messo a
punto da Bodhidharma era basato sullo yoga, sull’osservazione degli
animali, e sulle arti di combattimento indiane e cinesi preesistenti, nelle
quali era stato educato in gioventù.
Per la prima volta le arti marziali venivano utilizzate allo scopo di
perseguire uno stato spirituale, fu il punto di partenza della dottrina Zen.
L’ Ekkinkyo conobbe da subito un ampia diffusione in Cina, in
seguito Shaolin fu distrutto e rifondato più volte, i monaci si dispersero e
l’aspetto marziale dell’ Ekkinkyo si accentuò per adeguarsi alla durezza
dei tempi. Dalla base dell’ Ekkinkyo si sviluppò il “Sao lin su kempo 5
una tecnica di combattimento a mani nude che si diffuse fino all’isola di
Okinawa, dando origine alle tecniche che sarebbero state formalizzate
nel Karate. Più tardi in Giappone, la pratica delle arti marziali come via
5 noto oggi con il nome di “Kung Fu”
12

al perfezionamento spirituale fu intrapresa dai ceti guerrieri dell’età
Tokugawa (1603-1868).
Non deve stupire questo accostamento tra religione e arti marziali,
esso è comune in Cina anche al taoismo e inoltre non mancano nella
storia dell’ occidente esempi di ordini monastici combattenti.
Fin qui l’incrocio di storia e leggenda che vuole dare alle arti
marziali tradizionali ed al Karate un impronta mitologica e intimamente
legata alla religione buddista e allo Zen in particolare.
La storia: Okinawa e le Ryukyu
Il Karate nasce ad Okinawa, la maggiore tra le isole dell’
arcipelago delle Ryukyu, dalla elaborazione di tecniche cinesi di lotta a
mani nude 6 .
Le isole giapponesi si popolarono nella preistoria attraverso il
passaggio delle migrazioni delle genti di cultura melanesiana che
partendo dall’Indonesia e passando per le Filippine, raggiunsero prima
Okinawa e poi il Giappone 7 .
Durante l’ epoca Yahoi (dal terzo secolo a.c. al terzo secolo d.c.) il
Giappone si evolve enormemente grazie all’influenza della Cina che lo
trascina nell’era del ferro, mentre Okinawa resta isolata, si formano così
due culture diverse, che marceranno a diversa velocità. Il Giappone
costituisce da subito uno stato feudale basato sul modello cinese mentre
l’evoluzione della società di Okinawa resta lenta e chiusa fino al secolo
nono, in questo periodo, con l’introduzione degli utensili in ferro dal
Giappone e una conseguente maggiore redditività dell’agricoltura, alcuni
capotribù si affermano in tre diverse regioni dell’isola, comincia il
periodo detto “delle tre montagne”.
6 Kenji Tokitsu - Storia del Karate - Oriental Press Milano 2005
7
E’ indubbio che il ceppo sia comune tra le genti delle isole Ryokyu e quelle delle isole
maggiori del Giappone, inoltre la lingua di Okinawa è considerata dai linguisti nipponici come
un dialetto del giapponese, formatosi dalla scissione della lingua comune avvenuta tra il terzo e
quarto secolo. Cfr Tokitsu - Storia del Karate - Oriental press 2005
13

Attraverso gli scambi commerciali col Giappone l’isola comincia
ad evolversi culturalmente, viene introdotta la scrittura e si diffonde la
religione buddista. Nel quattordicesimo secolo cominciano gli scambi
con la Cina, nella seconda metà del milletrecento i capi dei tre regni in
cui Okinawa risultava divisa 8 cercano di stabilire dei contatti con la
dinastia Ming. I rapporti commerciali vengono presto trasformati in
vassallaggio e dal
1372, a conferire il titolo ai re di Ryukyu è
l’imperatore cinese attraverso una ambasceria che si compone di
funzionari civili e militari, una tradizione che durerà ininterrottamente
fino al 1866.
Questa stretta relazione con la Cina sarà fondamentale per
l’apprendimento e la diffusione delle tecniche di lotta dalle quali si
svilupperà il Karate, si può supporre che l’ambasceria abbia avuto un
ruolo importante nella trasmissione dalla Cina dell’arte del
combattimento.
All’inizio del quindicesimo secolo Okinawa viene unificata sotto
un unico Re, inizia il dominio del clan Shò. Nel
1509 Shò Shin
organizza un potente stato centralizzato, insedia il governo nella città di
Shuri, dove costruisce il suo castello, ed estende il suo dominio alle isole
vicine.
In un iscrizione dell’edificio centrale del castello di Shuri, un
decalogo inciso nella pietra, afferma al punto 4: “il re si è fatto vestire di
magnifica seta, ha fatto decorare oggetti con oro e argento e ha raccolto
le armi per proteggere il proprio paese…” 9 .
Una testimonianza storica, tratta da un documento scritto da
naufraghi coreani che si intrattennero un anno nell’arcipelago, ci dice
come attorno al 1477 in Okinawa fosse un esercito numeroso e bene
armato che disponeva anche di qualche cannone in grado di lanciare
8 periodo detto delle tre montagne
9 Questo scioglie un dilemma: si riteneva infatti che il divieto di porto d’armi in Okinawa fosse
stato disposto dopo l’invasione giapponese del 1609, ma l’iscrizione lascia intendere che sia
antecedente di cento anni e imposto dal legittimo re. Cfr Tokitsu - Storia del Karate - Oriental
press 2005
14

pietre, frutto del commercio con la Cina, mentre in Giappone polvere da
sparo e armi da fuoco arrivarono solo 70 anni più tardi introdotte dai
portoghesi.
Nel 1509 con l’ascesa al trono di Shò shin l’ isola e l’arcipelago
erano pacificati, l’esercito serviva a difendere la popolazione dalle
incursioni peraltro ormai sempre più rare dei Wakò, i pirati originari del
sud del Giappone che devastavano le coste Coreane e Cinesi arrivando a
volte fino a Ryukyu.
I Satsuma
Quando nel
1609 la signoria Giapponese dei Satsuma invade
Ryukyu l’esercito locale è quasi inesistente, il governo dell’isola non si
basa più sulle armi ma su di un dominio carismatico. Le cronache
dell’invasione riportano dati di una vittoria militare schiacciante. A
fronte di 531 morti tra gli isolani, solo 57 furono le perdite dei Satsuma.
I giapponesi, armati anche con fucili (sconosciuti o quasi ad Okinawa) si
trovarono di fronte un popolo disarmato e una nobiltà male armata e
disorganizzata.
Una certa tradizione vuole che gli abitanti si difendessero
valorosamente utilizzando il karate contro i giapponesi ma, una
immagine eroica del genere è lontana dalla realtà 10 .
Fino alla fine del diciannovesimo secolo Okinawa fu tenuta sotto
la doppia dominazione Cino Giapponese, i Satsuma lasciavano
mantenere il vassallaggio con la Cina per approfittare così di scambi
commerciali indiretti con il celeste impero, scambi che erano vietati
rigorosamente dallo Shogunato 11 .
10 in primo luogo perché il “Te” o “Okinawa-te” (ancora non veniva denominato Karate) non era
all’epoca diffusamente praticato, ad eccezione che tra la nobiltà ed in segreto, in secondo luogo
perché la dimensione di questo scontro fu tale che l’efficacia del Karate non avrebbe potuto
svolgervi un ruolo importante. Cfr K. Tokitsu - Storia del Karate - Oriental Press Milano 2005
11 Vedi il paragrafo dedicato al Sakoku.
15

2 - Nascita del Karate
L’influenza cinese
Il Karate si vorrebbe nato dall’inventiva dei contadini per
difendersi a mani nude dagli oppressori armati, questa immagine però
non risulta avere un fondamento storico.
E’ nell’ analisi dell’ influenza della cultura cinese sull’isola che va
cercato il cuore della trasmissione delle tecniche attorno alle quali verrà
creato il karate durante la dominazione giapponese.
Secondo una tradizione comune a tutte le culture, le arti marziali
vengono trasmesse in modo esoterico, infatti la superiorità di una tecnica
era legata proprio alla sua segretezza, inoltre i praticanti in questo modo
erano protetti dall’ anonimato.
Secondo Kenji Tokitsu 12 la cultura, anche quella marziale, non si
era sviluppata abbastanza a Ryukyu prima dei contatti con la Cina, le
prime forme di lotta a mano nuda si diffondono quindi a Okinawa
attraverso tre canali di contatto tra la società locale e i cinesi: I
viaggiatori venuti dalla Cina, i cinesi residenti nell’isola, gli abitanti di
Okinawa che fecero il viaggio in Cina e riportarono ciò che ivi avevano
appreso.
L’ambasceria che dal 1372 al 1866 si recò 23 volte in Okinawa per
la consacrazione dei Re locali fu certo uno dei canali maggiori, era
composta da personale civile e militare, si tratteneva diversi mesi
sull’isola ed era formata da diverse centinaia di persone, certamente si
occupava anche della divulgazione della cultura civile e marziale cinese
in Okinawa 13 .
Nel 1392 su richiesta del re Satto di Okinawa, i cinesi realizzarono
un insediamento stabile, fu fondato il villaggio di Kume, nella regione di
12 Kenji Tokitsu - storia del Karate - Oriental Press Milano 2005
13 il fatto che un kata praticato in alcuni stili di karate porti ancora oggi il nome di un noto capo
delegazione, sembra avvalorare questa ipotesi. Cfr Tokitsu - Storia del Karate - Oriental press
2005
16

Naha, nel quale prese alloggio un gruppo di cinesi detto
“le trentasei
famiglie”.
Questo gruppo, legato alle credenze confuciane e taoiste costituiva
una cerchia chiusa ma, essendo i suoi membri incaricati di redigere gli
scritti ufficiali e di favorire il processo di centralizzazione del potere,
aveva contatti continui ed intensi con la nobiltà di Okinawa.
Si ritiene che questi residenti coltivassero un arte di
combattimento, essa fu tramandata ad alcune famiglie nobili locali, la
cosa apparve evidente quando, la chiusura verso l’esterno di Kume e
delle trentasei famiglie si attenuò negli anni precedenti la
“guerra
dell’oppio” 14 . E’ in questo periodo che l’arte di combattimento di kume
si rende palese, sotto il nome di Naha-te, l’appalesamento si fa completo
quando nel
1879 Okinawa viene integrata nello stato giapponese
moderno e una parte degli abitanti di Kume, che non rientra in Cina, si
integra con la popolazione locale.
Erano molti gli abitanti di Okinawa che facevano il viaggio in Cina
e vi risiedevano per qualche anno, certo è anche che alcuni di loro
furono addestrati militarmente, non vi è traccia però di una scuola di “te”
ad Okinawa prima di quella di Sokon Matsumura nata all’inizio del
diciannovesimo secolo, questo induce a pensare che i
“viaggiatori”
abbiano rappresentato un canale secondario o comunque non immediato
nella elaborazione e divulgazione del karate.
L’ elaborazione del karate ad Okinawa e la diversa influenza di Cina e
Giappone
Le influenze successive di Cina e Giappone hanno avuto diverse
ripercussioni sulla formazione del karate ad Okinawa. La dominazione
cinese, cercata e voluta dai regnanti dell’isola per assicurarsi la
possibilità di sviluppare la cultura ed il commercio, portò in effetti un
14 Battaglia navale del 1841 con la quale la flotta di Lord Palmerston annesse Hong Kong alla
corona britannica dando inizio alla decadenza del celeste impero. cfr. Cambridge university press
- Storia del mondo moderno - Garzanti 1972
17

beneficio evidente, inoltre permise l’arrivo e la diffusione delle arti di
combattimento anche se in forma esoterica e non diffusa.
Diverso fu per la dominazione giapponese, essa fu instaurata con
la violenza e in breve spazzò via il preesistente ordine sociale per
riorganizzare la vita nell’isola secondo le esigenze dei Satsuma. Le
famiglie degli antichi nobili e dei vassalli dovettero fondersi negli altri
strati sociali e nel giro di poche generazioni divennero commercianti,
artigiani, contadini o pescatori, la diffusione dell’arte di combattimento
degli antichi vassalli quindi fu probabilmente il prodotto della mobilità
sociale di Okinawa seguito alla dominazione giapponese 15 .
I primi maestri: Kanga Sakugawa e Sokon Matsumura
Kanga Sakugawa è forse il più antico maestro di karate la cui
esistenza sia attestata, nato nel
1782, ci sono incertezze sull’anno della
morte, la sua esistenza è tramandata attraverso racconti leggendari che lo
dipingono come una persona dalla grande forza fisica, grande rettitudine
morale, e una buona dote di intelligenza pratica.
Sembra che la prima scuola di karate la cui trasmissione sia stata
organizzata con un metodo sistematico sia quella di Sokon Matsumura
(1809-1899) il quale ricevette probabilmente l’insegnamento di
Sakugawa e di un cinese chiamato Iwa. Matsumura apportò nuovo
slancio al karate di Okinawa introducendo elementi di provenienza varia,
anche sulla sua vita vengono raccontati aneddoti leggendari, uno dei
quali ci dice qualcosa sulla sua indole, pare infatti che egli avesse saputo
dominare un toro solo con la forza del suo sguardo 16 .
15 Possedere la pratica di questa arte fu a lungo per le famiglie di Okinawa il segno di antica
nobiltà e fierezza, e questo forse fu il motivo del carattere clandestino ed esoterico della pratica e
della trasmissione del karate antico. Cfr Tokitsu - Storia del Karate - Oriental press 2005
16 e la storia è parzialmente vera, in realtà Matsumura ricorse a quella che forse fu la prima
applicazione del principio di Pavlov picchiando ferocemente per giorni il toro sul muso mentre
questo era legato, finché al solo suo avvicinarsi esso fuggiva atterrito, solo allora lo affrontò
libero ed in pubblico, questo gli valse grande considerazione anche quando, poco tempo dopo,
egli svelò il suo segreto. Cfr Tokitsu - Storia del Karate - Oriental press 2005
18

Di Matsumura è il primo documento scritto a Okinawa
sull’addestramento alle arti marziali, una lettera autografa al suo allievo
Ryosei Kuwae dove il maestro espone il suo pensiero, dal testo si evince
che la base delle sue convinzioni e della sua morale era il
confucianesimo e che la sua pratica nel Budo ne era l’espressione.
Matsumura formò molti allievi, uno di questi Anko Itosu (1830-1915) ha
avuto forse un ruolo fondamentale per la diffusione del karate.
19

3 L’emergere del karate moderno
Okinawa all’inizio dell’era moderna
Il Giappone esce dal feudalesimo nel
1867, con la fine della
dominazione dello Shogun e il ritorno al potere imperiale, comincia uno
sforzo gigantesco per la modernizzazione e l’industrializzazione, nonché
per la costruzione di un moderno apparato militare di stampo
occidentale. Nel
1879 i feudatari perdono i loro privilegi compresa la
famiglia reale di Ryukyu, l’isola e l’arcipelago diventano da ora il
distretto di Okinawa.
Lo sforzo dei giapponesi in pochi anni da risultati sorprendenti, nel
1894 il potente e moderno esercito giapponese sconfigge la Cina 17 il
paese dove si è originata la cultura giapponese e con il quale Okinawa ha
legami ancora più stretti, ma la corsa giapponese è appena iniziata, nel
1904-5 esso sconfigge anche la Russia attaccando a sorpresa la flotta
russa a Port Arthur 18 .
Il paese è ormai dotato di infrastrutture, di un sistema educativo e
di un amministrazione moderni e fortemente centralizzati. Per questo
motivo questa epoca segna per gli abitanti di Okinawa un periodo di
ridefinizione segnato dalla volontà di affermare la propria appartenenza
al Giappone prendendo le distanze dalla cultura cinese fino ad allora
predominante.
In questo periodo anche il Te di Okinawa cerca una sua
definizione nella cultura giapponese, definizione che nel tempo verrà,
con l’accettazione del karate tra le arti del Budo.
17 Dopo una breve e vittoriosa guerra il Giappone con il trattato di Shimonoseki dell’aprile del
1895 costringe la Cina a cedere Formosa e la penisola di Liaotung con Port Arthur, che poi
cederà momentaneamente alla Russia, e a riconoscere inoltre l’indipendenza della Corea. cfr.
Cambridge university press - Storia del mondo moderno - Garzanti 1972
18 In quindici mesi i giapponesi battono l’esercito e la flotta russa in tutti gli scontri e mettendo in
rilievo l’inconsistenza dell’immenso impero dello Zar spalancano le porte alla prima rivoluzione
russa del 1905. cfr. Cambridge university press - Storia del mondo moderno - Garzanti 1972
20

Il karate entra nelle scuole
Nel 1901 il maestro Anko Itosu riesce a fare adottare il karate
come disciplina insegnata alle scuole elementari di Okinawa, tre anni
dopo il Giappone si impegnerà nella guerra contro la Russia, siamo nel
pieno di uno sforzo eccezionale volto all’industrializzazione e al
rafforzamento militare, si pensa così di iniziare a forgiare fin
dall’infanzia lo spirito combattivo dei giapponesi, nel
1905 il karate
entra anche al liceo e all’istituto magistrale di Okinawa. Il karate che
entra a scuola è stato modificato da Itosu per poter essere insegnato da
una sola persona a gruppi numerosi, la tecnica allora adottata, così
diversa
dall’insegnamento dell’epoca
precedente,
esoterico
e
personalizzato, è ripresa dalle tecniche di addestramento degli eserciti
occidentali 19 .
In un testo del
1908 Itosu lascia il proprio decalogo per gli
istruttori di karate nelle scuole, lasciando intendere chiaramente cosa lo
spinga a diffondere la sua arte:
“… se insegneremo il karate all’istituto
magistrale seguendo queste dieci istruzioni formeremo degli istruttori
che insegneranno in seguito nelle scuole delle diverse regioni
… penso
che il risultato sarà evidente da qui ad una decina di anni non solo nella
nostra provincia ma in tutto il paese e che saremo così utili alla società
militare del nostro paese.”
L’entrata del karate nella scuola segna anche l’irrigidimento e la
formalizzazione di un arte che fino ad ora era stata in continua
evoluzione, ora la cosa più importante appariva il rispetto della
tradizione acquisita, a partire dagli anni venti il Karate sarà presentato
come arte marziale di Okinawa nelle isole principali del Giappone.
Tra i seguaci di Itosu, Gichin Funakoshi e Kenwa Mabuni, sono
coloro che porteranno il karate in Giappone, Funakoshi in particolare
raggiungerà una fama tale da essere considerato a tutt’oggi il padre del
Karate in tutto il mondo.
19 Dove un maestro grida un comando che viene eseguito da tutti gli allievi, è il metodo di
insegnamento usato tuttora.
21

Il karate non è solo lo Shotokan del maestro Funakoshi ma per
focalizzare il nostro percorso ci occuperemo prima dello shotokan e poi
dello shotokai dove termineremo la parte storica.
22

4 La scuola Shotokan
Gichin Funakoshi
G. Funakoshi è considerato da molti il creatore del karate
moderno, in realtà in questi termini si deve molto di più al suo maestro
A. Itosu, i meriti di Funakoshi sono invece legati alla diffusione di
questa arte nelle isole maggiori del Giappone da cui si è poi diffusa nel
mondo. Funakoshi comincia la pratica del
karate a
12 anni con il maestro Anko
Asato, allievo di Matsumura, nato a
Okinawa nel
1868, primo anno dell’era
della modernizzazione Meiji, appartiene ad
una famiglia
di
funzionari
molto
tradizionalista 20 .
Funakoshi studia duramente il karate
sotto Asato, di notte, all’aperto, nelle sue
memorie descrive allenamenti massacranti
,
il suo maestro come
inflessibile.
A 21 anni Funakoshi diviene insegnante elementare a Naha, questo
sarà un tratto peculiare per lui, in quanto spesso sarà per i suoi allievi un
maestro di vita oltre che di arti marziali. All’inizio della sua carriera di
insegnante elementare Funakoshi conosce Itosu e seguendo il consiglio
del suo maestro comincia a praticare anche con lui, soprattutto per
apprendere la sua tecnica di divulgazione.
E’ nel
1921 che avviene la svolta per l’arte di Okinawa, in
occasione di una visita del principe imperiale in viaggio verso l’Europa
viene organizzata una dimostrazione di karate, Funakoshi è incaricato di
dirigere gli allievi, un anno dopo egli viene inviato a Tokyo per dare
20 Al punto (su insistenza di suo padre) da rinunciare agli studi di medicina per il rifiuto di
tagliare l’ acconciatura a crocchia distintiva della classe dei samurai. Cfr G. Funakoshi “ Karate
do, il mio stile di vita ” Mediterranee Roma 2002.
23

dimostrazione all’interno dell’esposizione nazionale di educazione
fisica.
Dopo la dimostrazione Funakoshi vorrebbe tornare ad Okinawa
ma J. Kano, lo storico fondatore del Judo lo convince a restare per
diffondere la sua arte a
“Hondo” 21 . Kano in Giappone è considerato
all’epoca un dio delle arti marziali, la fondazione del Judo in
contrapposizione al preesistente jujitsu, sarà il tema del primo splendido
film di Akira Kurosawa
“Sugata Sanshiro” realizzato tra il quarantatrè
ed il quarantacinque 22 .
L’invito di Kano, che ricopre un ruolo di funzionario al ministero
dell’istruzione, non può essere rifiutato e così Funakoshi si trasferisce a
Tokyo dove, con grandi sacrifici trova un posto da portinaio in uno
studentato e si dedica all’insegnamento del karate, per i primi anni il suo
sforzo non sembra dare frutti. Il cambiamento avviene con l’apertura dei
primi club di Karate nelle università, e proprio il sistema gerarchico
tipico degli studenti universitari 23 diventerà caratteristico del karate.
Dalla “mano di Cina” alla “mano vuota” alle arti del budo
Tra il
‘22 e il
’24 Funakoshi scrive due libri:
“Ryukyu Kempo
Karate” ovvero “il karate, pugilato di Ryukyu” e “Rentan goshin Karate
jutsu” ovvero
“Tecnica del Karate, rafforzamento energetico e
autodifesa”. In quest’epoca kara-te significa “mano di Cina” infatti Kara
si scrive con l’ideogramma che significa Cina, verso il
1930, con il
montare del nazionalismo Funakoshi capisce che questo nome è un
ostacolo comincia a scrivere Kara con l’ideogramma usato per vuoto,
21 Nome giapponese dell’isola maggiore.
22 Questo film tratta i temi del passaggio delle arti marziali tradizionali da semplici tecniche di
combattimento a sistema di crescita interiore, dove lo spirito dell’adepto, attraverso
l’apprendimento della compassione e l’abbandono dell’ego trascende la forza e la tecnica
realizzando se stesso
23 E comune in Giappone nei rapporti sociali. Cfr Tokitsu - Storia del Karate - Oriental press
2005
24

giustificherà questa scelta con un passo del sutra del cuore, tipico
dell’insegnamento buddista zen soto:
Shiki soku ze ku
ku soku ze shiki
ovvero: “ … tutto ciò che esiste è espressione del vuoto … ”. Ed in
effetti lo stato di vuoto è quello ricercato dalle arti marziali del budo,
Karate per Funakoshi non vuole significare tanto
“lotta a mani nude”
quanto
“tecnica del vuoto”, anche in considerazione del significato
dell’ideogramma “te” che oltre che per “mano” può essere usato anche
per
“tecnica”. Dopo di ciò Funakoshi aggiunge alla parola Karate il
suffisso
“do” inteso come via, nella stessa accezione delle altre
discipline tradizionali del Budo, per significare la volontà di integrare la
cultura del Budo in modo da innalzare la qualità del Karate 24 .
Questa la descrizione di “Kara” per Funakoshi: “Come la levigata
superficie di uno specchio riflette qualunque cosa le stia di fronte e una
quieta valle riecheggia anche i più piccoli suoni, allo stesso modo il
praticante di Karate deve rendere vuota la sua mente di egoismo e
debolezza, nello sforzo di reagire adeguatamente in qualunque
circostanza.” Per queste sue scelte egli riceve critiche durissime, specie
dai vecchi praticanti di Okinawa, ma in capo a pochi anni il significato
imposto da Funakoshi è universalmente accettato.
Nel
1935 Funakoshi scrive
“Karate-do Kyohan”
(testo di
insegnamento del Karate-do) e tutto sembra andare per il meglio, nel
1938 i suoi allievi cominciano la costruzione del primo Dojo che
chiameranno Shotokan 25 . Shotokan sarà da allora il nome designato
anche per identificare la scuola del maestro Funakoshi, a questo punto
della sua vita egli ha
70 anni, stabilisce un sistema di Dan e Kyu per
24 Cfr Tokitsu - Storia del Karate - Oriental press 2005
25 “La casa nel fruscio della pineta” utilizzando lo pseudonimo di poeta e calligrafo di Funakoshi
- Shoto - ovvero il fruscio dei pini.
25

designare i gradi degli allievi 26 e struttura i corsi e l’insegnamento nelle
università mentre delega la responsabilità del dojo Shotokan al terzo
figlio, Yoshitaka. Yoshitaka prende l’iniziativa di introdurre nella pratica
l’esercizio del combattimento libero, cosa che il padre non accetta di
buon grado, tra i due si accentua il divario sull’interpretazione del Karate
sia dal punto di vista tecnico che da quello morale.
Gichin Funakoshi viene ricordato come una persona estremamente
mite e riflessiva, sulla sua mitezza sono raccontati diversi aneddoti che
ci dicono come egli intendesse l’arte del Karate, uno dei suoi detti più
famosi è altrettanto illuminante “Karate ni sente nashi” ovvero “il karate
non comincia mai con un attacco 27 ” è il secondo dei venti punti sul
Karate lasciati da Funakoshi. Egli è contrario anche all’aspetto sportivo
del karate, temendo che questo possa trascinare l’adepto fuori strada,
dice: “nel Karate come budo il combattimento significa combattimento a
morte, la boxe ad esempio è stata elaborata come sport, eliminando le
tecniche pericolose … fare il karate come competizione sportiva vi farà
deviare dalla via”.
La sconfitta del Giappone
E’ il
1945, il dojo Shotokan brucia assieme al Giappone sotto i
bombardamenti americani, Funakoshi lascia Tokyo per raggiungere la
moglie rifugiata nell’isola di Oità, Yoshitaka si ammala gravemente, due
anni dopo sia la moglie che il figlio muoiono, tutto sembra finito.
Funakoshi a
80 anni ricomincia da capo, torna a Tokyo per
rifondare la scuola Shotokan, attorno a lui si riuniscono gli antichi allievi
sopravvissuti alla guerra, viene costituita la J.K.A. Japan Karate
Association, Funakoshi tiene le redini ferme sul modo e sul significato
della pratica ma alla sua morte a
89 anni nel
1957 le contraddizioni
esplodono.
26 Mutuandolo per la verità dal Judo.
27 O anche secondo altri “il pugno che non colpisce per primo” cfr. Shigeru Egami “ La via del
Karate ” Oriental Press Milano 2005
26

Le correnti dello Shotokan
Dopo la morte del Maestro Funakoshi la J.K.A. si scinde in tre
gruppi, uno mantiene la denominazione JKA, un altro prenderà il nome
di Shotokai 28 , il terzo è il gruppo universitario. La divisione
apparentemente avviene per dissidi nati nell’organizzazione dei funerali
del maestro ma in realtà dietro c’è la diversa visione del karate da parte
dei leader di questi gruppi.
La JKA
La JKA è diretta da ex allievi dell’università Takushoku 29 , è la
corrente dello Shotokan più conosciuta al di fuori del Giappone, ha
sviluppato uno stile unificato con competizioni di kata e di
combattimento libero.
I gruppi universitari
Esistono varie correnti interne ai gruppi universitari giapponesi,
l’insegnamento impartito qui è quello più simile allo shotokan del
Maestro Funakoshi con l’inserimento però del combattimento libero stile
JKA.
Lo Shotokai
Oggi shotokai è considerato uno stile indipendente dallo shotokan
ma in passato era l’associazione degli adepti dello shotokan, dopo la
divisione lo shotokai è diretto da Shigeru Egami, il migliore tra gli
allievi di G. Funakoshi. Egami, pur rispettando le idee di Funakoshi, ha
trasformato il suo karate in maniera considerevole, la sua ricerca, ha
28 Associazione dello shoto
29 Di cui si conosceva la tendenza nazionalista e di estrema destra cfr. Tokitsu
- Storia del
Karate - Oriental Press Milano 2005
27

fatto si che oggi egli sia considerato il capostipite dello stile di karate
Shotokai.
Da questo momento abbandoniamo ogni altra scuola e corrente di
karate per concentrarci sullo sviluppo e sulla diffusione dello shotokai in
Europa e in Italia, per far questo occorre analizzare la figura del Maestro
Shigeru Egami.
28

5 Shigeru Egami
Shigeru Egami nasce a Kyushu nel
1912,
inizia la sua attività di karateka dopo il suo arrivo
a Tokyo, dove frequenta i corsi di commercio
all’università Waseda, proprio qui conosce
Funakoshi, del quale sarà il miglior allievo e al
quale resterà fedele tutta la vita, tanto che, dopo la
morte di Funakoshi, la responsabilità del dojo
Shotokan sarà sua con il benestare della famiglia. Dopo la morte di
Funakoshi, Egami approfondisce con passione il Karate che egli gli ha
insegnato, nel corso della sua ricerca dapprima mette in discussione
l’efficacia delle tecniche, quella dell’efficacia diviene presto un
ossessione.
L’efficacia
Egami si getta in uno studio comparato sull’efficacia dello “tzuki”
il pugno, nelle varie arti marziali e sportive, la sua osservazione del fatto
che in generale le persone che non sono state addestrate in nessuna arte
di combattimento hanno un pugno molto penetrante lo costringe a
riflettere. Questa riflessione, unita anche al ricordo del Karate di
Funakoshi (quello che possedeva più ancora che quello che insegnava)
lo portano a ridefinire tutto, ora il Karate di Egami, lo Shotokai, diviene
fluido e decontratto, e queste resteranno fino a oggi le peculiarità di
questo stile.
La via di Heiho
Anche da un punto di vista filosofico Egami si impegna a fondo
per dare una definizione della sua disciplina, la via del karate di Egami
sfocia in un
“metodo di pace” detto
“Heiho” che affonda le proprie
29

radici nella cultura giapponese antica. Il Heiho, come il Budo, non è una
semplice arte di combattimento, entrambe mirano alla formazione
dell’uomo partendo da una pratica di tipo marziale. La nozione di Heiho
è precedente a quella di Budo, mentre il Budo nell’accezione di cui
sopra è un concetto relativo alle arti marziali moderne, Heiho è un
concetto antico, esso non viene sviluppato nell’antichità perché viene
considerato solo come una possibilità, una sublimazione delle arti
guerriere in arti di pace e destinato a pochi 30 .
Occorre un esempio: Miyamoto Musashi 31 , uno dei più grandi
maestri di spada del XVII secolo, nella prima parte della sua vita uccise
circa sessanta persone in duello, ma poi, evolvendo sempre più nella sua
arte riusciva a dominare i suoi avversari senza colpirli, spesso senza
muoversi, la perfezione della postura della sua guardia e la saldezza del
suo spirito inducevano nell’avversario una seria riflessione sulla propria
tecnica e sul proprio essere e lo costringevano alla resa.
Si tratta di una scoperta importante nell’arte della scherma perché
anziché uccidere, la spada poteva condurre l’uomo alla ricerca del
significato della propria vita, questa idea è presente nella nozione di
Heiho e impregna profondamente la concezione delle arti marziali dei
guerrieri giapponesi del periodo Edo.
Il misticismo di Egami
Nella ultima parte della sua vita Egami si orienta verso la ricerca
energetica e la comunicazione interpersonale e orienta il proprio karate
verso il misticismo. Due personalità del mondo delle arti marziali sono
molto importanti e lo influenzeranno nella sua ricerca, Moriei Ueshiba, il
fondatore dell’ Aikido e Shoyo Inoue, fondatore del Shinwa-taido.
30 cfr. Tokitsu - Storia del Karate - Oriental Press Milano 2005
31
Musashi è considerato il più grande schermitore di tutti i tempi, personaggio molto
particolare, descritto come un disadattato e che noi oggi definiremmo un assassino psicopatico,
pure alla fine della sua vita eccelleva in tutte le arti, e particolarmente nella pittura e nella poesia.
Fondò una sua scuola di scherma in cui si utilizzano contemporaneamente due spade, soleva dire
infatti che è inutile morire con una spada ancora nel fodero. Ha lasciato un trattato di arte della
spada: Miyamoto Musashi - il Libro dei cinque anelli - Mondatori Milano 2004 , poi si è ritirato
in un monastero, finendo i suoi giorni da monaco Zen.
30

Anche essi danno alle loro arti marziali un impronta mistica, Ueshiba
dice
“il fondamento dell’ Aikido è l’amore” e Inoue avverte che, nella
pratica, “occorre captare l’energia unificante dell’universo”.
Due affermazioni che nell’accezione in cui sono fatte hanno
praticamente lo stesso significato, lo stesso della pratica di Heiho per
Egami.
La malattia e la morte
Dopo i quarant’anni, lo stato di salute di Egami si aggrava, egli
nonostante un fisico solidissimo non ha mai avuto buona salute essendo
malato di tubercolosi dall’età di
20 anni, dopo il
1956 subisce alcuni
interventi chirurgici per l’asportazione dello stomaco, ha serie difficoltà
a nutrirsi, si riduce a soli
37 chili, rischia di non poter mai più dirigere
gli allenamenti, comincia ad interrogarsi sul significato di questo,
scrive 32 : “… come potrò essere un maestro di arti
marziali senza potermi muovere? Ma allora
ricordai le altre parole del Maestro Funakoshi:
“l'allenamento nel Karate deve essere quello
praticabile da tutti, dai vecchi come dai giovani,
dalle donne, dai bambini e dagli uomini”. Con
queste parole in mente presi la decisione di
vedere se mi fosse possibile praticare anche se mi
trovavo in pessime condizioni fisiche. I risultati furono rassicuranti e
trovai che mi era possibile praticare grazie all'oculata scelta di certi
metodi. Avendo successo decisi di votare il resto della mia vita alla
pratica del Karate”.
Queste esperienze creano in lui un attitudine all’introspezione e
orientano l’ultima parte della sua ricerca nel karate, particolarmente
dopo un arresto cardiaco che lo fa “morire” per qualche secondo.
32 cfr. Shigeru Egami “ La via del Karate ” Oriental Press Milano 2005
31

Di questo scrive: “Una volta sono morto. Sono già trascorsi più di
tre anni da allora. Si è trattato di un attimo, forse di una decina di
secondi. Ciò che ho capito in seguito è che si è trattato di una specie di
attacco cardiaco.
In quel fuggevole istante ho fatto un'esperienza straordinaria e
preziosa. Le condizioni erano quelle di un uomo di fronte alla morte.
Indicibile dolore, sofferenza, malinconia
… e poi afflizione, paura e
angoscia messe insieme sì da diventare una cosa acuta, penetrante.
La partecipazione emotiva fu pressoché assoluta, io che avevo
sempre ostentato un abituale stato di calma. Anche la gioia di quando
ritornai alla vita fu straordinaria: vedevo tutto splendere, fu
un'impressione reale, fu la felicità di sentire la vita. Fu l'acme del
piacere, tanto che era come se avessi dovuto parlarne con tutti. È
probabile che estasi sia il termine più adeguato per questa esperienza che
mi fu dato di fare nell'arco di dieci o venti minuti, poiché ho provato di
persona la dignità nonché la gioia di vivere.
Torniamo a quella decina di minuti. L'amicizia delle persone
intorno, i mutamenti dello spirito e poi il prodigio dello scambio tra gli
esseri, tra gli animi, tra i corpi: non sono sicuro di essere in grado di
raccontare quel che mi fu concesso di apprendere.
L'uomo non è fatto per vivere da solo; sostenuto da molti,
similmente alla maglia di una fitta rete vive in relazione agli altri,
attraverso lo scambio con gli altri. Ecco ciò che compresi”.
Dopo di questo Egami vive per altri
15 anni, poi, durante una
sessione di allenamento per istruttori il suo stato si aggrava, morirà nel
1981 all’età di 68 anni.
Il “Toate”
Shigeru Egami è divenuto famoso anche per una particolarità, pare
fosse in grado di praticare il Toate ovvero il colpo a distanza, con il
quale era in grado di proiettare un avversario senza toccarlo.
32

L’esecuzione di questo colpo da parte del maestro è stata osservata e
descritta da diverse persone. Restando ferma l’impossibilità di accettare
un evento del genere dal punto di vista scientifico, pure si tenta di
descriverlo seguendo le osservazioni di Kenji Tokitsu al riguardo 33 .
Tokitsu si chiede il primo luogo in che misura la tecnica di Toate è
efficace, ma chiude subito l’argomento in quanto Egami, l’unico
considerato in grado di praticarla, è morto.
Tokitsu passa allora a descrivere la cosa che più si avvicina al
toate del maestro Egami, ovvero l’allenamento che si pratica nello
Shintaido 34 . La pratica del Toate nello Shintaido avviene attraverso la
ripetizione fino allo sfinimento di movimenti e cadenze semplici e
perfettamente memorizzate, questi esercizi mirano a sopprimere
temporaneamente i comandi volontari, le percezioni e le reazioni del
corpo, un esaurimento della parte cosciente causato dallo sfinimento
fisico, aumentano così le capacità intuitive e la sensibilità agli stimoli
ricevuti dagli altri. A questo punto si praticano esercizi di coppia in cui
si cerca di fondersi con il partner, con la sua fisicità, con la sua volontà,
è a questo punto che il corpo reagisce automaticamente alla minima
intenzione dell’altro.Quando i due partner sono lontani di qualche metro,
se l’uno fa un movimento, con il pensiero di fondersi con l’altro,
effettuando un’estensione volontaria e spontanea del proprio corpo nel
suo spirito, l’altro, come colpito da un energia invisibile sarà proiettato
indietro, non sentirà il dolore che avrebbe se fosse colpito da un pugno
ma la soddisfacente e benefica sensazione di effettuare un incontro e una
fusione energetica con il partner.
Tokitsu riporta solo una descrizione di queste tecniche ma, alla
fine, non considera questa pratica dello Shintaido completamente affine
con il Toate di Egami 35 , in effetti egli non effettuava preparazione e
utilizzava il Toate in situazioni di combattimento.
33 Tokitsu - Storia del karate - Oriental Press Milano 2005
34 Corrente dello Shotokai che segue l’aspetto mistico del karate di Egami.
35 Riguardo alle pratiche dello Shintaido Tokitsu (pur non considerando lo Shintaido una setta)
osserva che esso utilizza alcune tecniche tipiche anche delle sette, che potrebbero far perdere al
praticante la distanza critica rispetto a quello che fa.
33

Non resta molto da dire, che il Toate di Egami fosse o no un fatto
reale il suo segreto riposa con lui e nessuno dei suoi discepoli sembra
poterlo riprodurre.
34

6 La diffusione del Karate nel Mondo
Dopo il 1945 il Giappone è occupato dall’esercito Americano, la
pratica delle arti marziali viene vietata per 2 anni, poi lentamente prima
il karate e il Judo, per la loro somiglianza con il pugilato e la lotta libera,
e poi anche le altre discipline, vengono reintrodotte. I più grandi
estimatori del Karate, nonché coloro che contribuiranno maggiormente
in un primo tempo a diffonderlo nel mondo saranno proprio i soldati
americani delle truppe di occupazione.
Molti maestri di karate ebbero contatti con le truppe di
occupazione americane ed accettarono di insegnare loro la propria arte,
lo stesso Gichin Funakoshi racconta le proprie esperienze al riguardo
nella sua biografia 36 :
“… con la fine della guerra venne l’occupazione, ed allora un certo
numero di soldati americani cominciò a farmi visita ed a chiedermi di
impartire loro lezioni di karate
… un giorno fui portato
… all’ hotel
Imperial per incontrare un editore americano … il mio principale ricordo
… fu la meraviglia di quell’americano per la mia età piuttosto avanzata
… mi disse … che in America il karate-do sarebbe stato apprezzato
come una chiave per la longevità. In seguito mi fu chiesto di insegnare
karate agli ufficiali incaricati all’educazione fisica nella base della US
air Force di Tachikawa, e un po’ più tardi mi fu chiesto di dimostrare un
kata per il comandante della base di Kisarazu, nella prefettura di Chiba.
Dopo che fu firmato il trattato di pace tra il Giappone e gli Stati Uniti, il
Karate si fece pacificamente strada nel continente americano. Ciò
accadde quando mi fu chiesto da un alto ufficiale americano di fare un
viaggio di tre mesi nelle basi continentali, dimostrando il karate-do agli
aviatori americani
… invece di dimostrare dinanzi a piccoli gruppi di
spettatori, ora eseguivamo i nostri kata di fronte a folte platee di
interessati aviatori americani
… così il karate-do che nella mia
fanciullezza fu, per Okinawa un attività clandestina a carattere locale,
36 Gichin Funakoshi “ Karate do, il mio stile di vita ” Mediterranee, Roma 2002
35

era divenuto finalmente un arte marziale tradizionale giapponese, ed ora
aveva messo le ali e volava in America … ed è conosciuto in tutto il
mondo. Mentre scrivo queste note 37 , sto ricevendo richieste di
informazioni, ed anche per tenere lezioni, in ogni parte del mondo.
Ancora sbalordito del numero di persone che hanno sentito parlare del
Karate, mi accorgo ora che una volta che questo libro sarà pronto dovrò
iniziare un altro progetto 38 , quello di mandare esperti di karate
giapponesi all’estero. 39
Non ne avrà il tempo, morirà pochi mesi dopo aver dato alle
stampe questo libro.
Giapponesi ed Americani
Quello che può apparire strano è che questi maestri, spesso
samurai, spesso nazionalisti, a volte reduci, accettino di avere a che fare
con l’occupante americano, non dimentichiamo infatti che la guerra
contro gli americani era stata terribile 40 e si era poi conclusa con uno
degli eventi più spaventosi che l’umanità abbia conosciuto, le esplosioni
nucleari su Hiroshima e Nagasaki.
Per spiegare questo, ricorro alle considerazioni di Ruth Benedict
sulla resa giapponese, fatte nel suo famoso studio antropologico
“Il
crisantemo e la spada” 41 commissionato dall’alto comando militare
americano come manuale per le truppe di occupazione.
37 settembre 1956
38 ha ora 89 anni
39 G. Funakoshi “ Karate do, il mio stile di vita ” Mediterranee Roma 2002
40 Tra l’altro durante lo sbarco americano ad Okinawa, patria del karate, la popolazione civile,
convinta che gli invasori non avrebbero avuto pietà, dette il via ad un incredibile suicidio di
massa nel quale circa duemila persone si tolsero la vita, perlopiù gettandosi dalle alte scogliere
41 Ruth Benedict, Il crisantemo e la spada Dedalo Bari 1968
36

L’Imperatore
La chiave della resa nipponica per la Benedict, è incentrata sulla
particolare e complessa struttura sociale del Giappone, ed in specie, sul
ruolo in essa giocato dall’Imperatore.
A lungo, durante i piani per l’occupazione si era discusso tra gli
americani come trattare la figura dell’imperatore.
Inizialmente prevaleva chi chiedeva un processo e una
conseguente condanna a morte per i crimini commessi in suo nome
dall’esercito Giapponese, anche in considerazione del fatto che
l’imperatore era in quegli ambienti considerato come un bamboccio in
mano alle alte sfere dell’esercito 42 . Poi, anche grazie agli studi della
Benedict, si capì che, benché nella sfera decisionale l’imperatore fosse
probabilmente in mano ad una oligarchia militare, pure l’esercito e la
popolazione avrebbero obbedito ciecamente ad ogni suo comando,
avrebbero lottato con sole canne di bambù contro i mitra e allo stesso
modo si sarebbero arresi come un sol uomo se l’imperatore l’avesse
chiesto loro, occorreva allora rispettare Hiro Ito, il beneficio sarebbe
stato immenso.
Illuminante al proposito il ricordo del grande regista Akira
Kurosawa (esperto di Kendo, la via della spada giapponese), nella sua
biografia “l’ultimo samurai”:
“Il
15 agosto del
1945 fummo tutti convocati nello studio per
ascoltare una dichiarazione capitale alla radio:
l’imperatore in persona doveva parlare via
etere all’intera nazione. Non dimenticherò mai
la scena che vidi quel giorno, camminando per
le strade. Sul tragitto da Soshigaya agli studi,
a Minuta, la gente per le strade sembrava già
42 così come la storia aveva insegnato fossero stati per centinaia di anni gli imperatori giapponesi
nelle mani dello Shogun
37

pronta per la cosiddetta
“onorata morte dei cento milioni 43 ” c’era un
atmosfera di tensione e panico. Alcuni negozianti avevano tolto dal
fodero le loro spade giapponesi e stavano seduti a fissarne la lama.
Quando rifeci la stessa strada per tornare a casa dopo il proclama,
la scena era però completamente diversa. Nelle strade commerciali la
gente era tornata allegramente al lavoro, come se si preparasse alla
vigilia di una festa popolare.
Non so se questo comportamento sia rappresentativo della capacità
di adattamento del popolo giapponese o della sua imbecillità. In ogni
caso devo riconoscere che nella personalità giapponese esistono
entrambe le sfaccettature. Esistono anche nella mia. Se l’imperatore non
avesse pronunciato il discorso nel quale ordinava ai giapponesi di cedere
le armi, se in quel discorso avesse fatto appello alla cosiddetta “onorata
morte dei cento milioni” la gente di quella strada probabilmente avrebbe
fatto come le si diceva, si sarebbe suicidata. E probabilmente io avrei
fatto lo stesso. Per i giapponesi l’affermazione di se è immorale, il
sacrificio della persona è la scelta più sensata che si possa fare nella vita.
Eravamo abituati a quell’insegnamento e non avevamo mai pensato a
metterlo in dubbio.”
Stupirà meno, alla luce di questo, il fatto che le strade del
Giappone fossero da subito un luogo sicuro per gli americani occupanti.
Sollevati di ogni obbligo morale alla vendetta, dall’ordine
dell’imperatore, i giapponesi non furono per gli americani fonte di
preoccupazione 44 e in breve tempo, i rapporti tra occupanti ed occupati,
forse anche grazie alla politica rispettosa degli americani, fiorirono 45 .
43 Così era detta l’opzione di suicidio collettivo che a lungo i Giapponesi pensarono di praticare
pur di non arrendersi
44 cfr Ruth Benedict - Il Crisantemo e la spada - Dedalo Bari 1968 pagg. 144-146
45 In un primo tempo, quando gli Americani imposero una costituzione tra le più democratiche
del mondo, poi la politica degli Americani in Giappone cambiò e nel 60’ costrinse in Giappone
ad accettare moltissime basi militari e missilistiche sul suo territorio, per le necessità della guerra
fredda. L’iddilio ebbe termine.
38

La diffusione in America
Nell’America del dopoguerra non arriva solo il Karate, le filosofie
indiane e il buddismo zen si affacciano quasi contemporaneamente alle
arti marziali nel panorama dell’intellighenzia americana degli anni
50, in
questo periodo c’è grande entusiasmo per l’oriente e le sue arti.
I primi maestri di Karate ad arrivare in America sono: Oshima (che
apre un dojo a Los Angeles, California, nel 1955), Nishiyama, Okasaki,
Gosei Yamaguchi, in america il Karate si impone come uno sport di
combattimento e la AAKF (All American Karate Federation) comincia
da subito ad organizzare incontri e campionati di Karate sportivo.
La diffusione in Europa
La Francia, è la nazione che vanta in Europa la più antica
tradizione di Karate, nel 1957, a Parigi, Henry Plée contatta un giovane
maestro giapponese Tetsuji Murakami (Shizuoka 31 marzo 1927
- Parigi
24 gennaio 1987). Plée propone a Murakami di lanciare il Karate in
Europa, egli accetta e si trasferisce a Parigi nel Dojo di Plée, il loro
sodalizio durerà solo un anno ma Murakami resta in Europa e si dà da
fare.
Tetsuji Murakami e lo Shotokai
Anche senza il supporto di Plée Murakami si dedica alla diffusione
del Karate in Francia, Germania, Inghilterra, Portogallo, Svizzera,
Algeria, Marocco ed Italia, dove viene invitato dal
pioniere italiano del Karate e fondatore dell’AIK
(associazione Italiana Karate), Wladimiro Malatesti.
In seguito fu il maestro Pierluigi Campolmi a
mantenere costante il contatto con Murakami,
garantendo lo svolgimento di stage annuali fissi.
39

Murakami aveva fin da bambino praticato il Kendo (obbligatorio
nelle scuole giapponesi durante la guerra) e l’Aikido, in seguito iniziò a
venti anni la pratica del Karate Do con il maestro Yamagushi, un allievo
diretto di G. Funakoshi. Quando arriva in Europa Murakami pratica il
Karate stile Shotokan e comincia a diffonderlo ma, durante un viaggio in
Giappone nel 1967 egli viene in contatto con il maestro Egami e lo stile
Shotokai, ne resta fulminato, rinuncia al grado acquisito e comincia a
seguire le lezioni di Egami, poi, tornato in Europa, cerca di portare i suoi
allievi verso lo Shotokai.
Murakami trova difficoltà e resistenze, non tutti, soprattutto tra i
gradi elevati, sono disposti a rimettersi in gioco completamente, nel
1961 Murakami apre un suo Dojo a Parigi in rue Cambronne e diviene il
responsabile dello stile Shotokai in Europa. In Italia lo stile Shotokai si
impone prevalentemente in Toscana, in Emilia, e soprattutto in
Romagna.
Tra la fine degli anni
70 e l'inizio degli anni
80 per volere del
Maestro Tetsuji Murakami nasce La “Scuola Shotokai Italia”. Il Maestro
chiede infatti che il suo gruppo, che fino ad allora si era chiamato
"Murakami Kai" cambiasse denominazione in Shotokai d'Italia e poi
Scuola Shotokai Italia. La Scuola esiste ma non vi è nulla di
formalizzato fino al
1992 quando in seguito ad un'assemblea tenutasi a
Sportilia 46 , viene ricostituita la Scuola Shotokai Italia e ne vengono
formalizzati gli organi:
- Assemblea
- Consiglio Direttivo
- Responsabile Tecnico e Coordinatore tecnico
(inizialmente nasce con
una Commissione tecnica ma poi i ruoli di guida tecnica vengono
accorpati e attribuiti a due persone, che Oggi sono il Maestro Maltoni di
Cesena e il Maestro Vacchi di Ravenna). Attualmente la SSI conta circa
300 iscritti tra Emilia Romagna e Toscana, la sede è a Cesena 47 . La SSI
46 Grosso centro polisportivo residenziale sito in località Spinello sull’appennino Forlivese.
47 Dati gentilmente forniti dal Dott. Marco Forti, segretario della Scuola Shotokai Italia
40

aderisce alla FIKTA 48 , una federazione nazionale che conta 49
402
società,
789 tecnici, e circa diciannovemila iscritti tra atleti, bambini,
over sessanta e ufficiali di gara 50
La diffusione in Italia
A Milano e da li al resto della Lombardia, il Karate si diffonde per
la passione di Roberto Fassi, uno studente milanese praticante di Judo e
assiduo partecipante agli stage di Plée in costa azzurra. Nel
1963,
divenuto primo kyu
(cintura marrone) Fassi raccoglie attorno a se un
primo nucleo di praticanti ai quali impartisce lezioni bisettimanali 51 . Da
questo primo nucleo, il karate stile shotokan si diffonde anche in Liguria
e a Bologna, intanto nel Lazio si impone lo stile Wado Ryu importato da
Augusto Basile che lo aveva appreso a Parigi nel dojo di Hiroo
Mochizuchi.
Questi tre gruppi, Shotokan al nord, Shotokai al centro e Wado
Ryu al sud, daranno vita, a distinte associazioni, AIK
(associazione
italiana karate) al nord, FIK
(federazione italiana karate) al centro e
KIAI (Karate international accademy of Italy) al sud.
Nel 1967, dopo un fallito tentativo delle tre associazioni di fare
entrare il karate nel CONI, FIK e KIAI si fondono in un'unica
federazione che manterrà il nome FIK, in seguito la AIK si scioglie, una
parte dei suoi praticanti entra nella FIK, un'altra parte fonda una nuova
federazione, la FESIKA.
Nel 1973 un primo censimento indicava in circa trentamila i soli
praticanti di karate legati alla FIK . Dopo altre fusioni e scioglimenti si
arriverà ad una situazione stabile solo nel
1995 con l’esistenza di due
federazioni, la FIKTA e la FITA .
48 Federazione Italiana Karate Tradizionale e arti affini.
49 Dati forniti dalla gentilissima Linda, segretaria Fikta di Milano.
50 La SSI pratica solo gare di Kata, non di combattimento.
51 Ennio Falsoni “il Karate moderno Feltrinelli Milano 1974”
41

Oggi in Italia, i Praticanti di arti marziali Tradizionali o sportive
orientali tesserati nelle varie federazioni sono circa seicentomila 52
52 cfr.
Arti d’Oriente
- bimestrale di culture e tradizioni orientali ” Oriental Press Milano
Luglio-Agosto 2005
42

7 Zen e Arti Marziali
Il Medioevo Giapponese
Il buddismo zen 53 nasce come abbiamo visto, nel quinto secolo, in
Cina, ad opera del monaco indiano Bodhidharma nel monastero di
Shaolin. Con la fine dell’era Heian (794 - 1185), in
Giappone termina il periodo classico, nel quale i
nobili, ritirati a Kyoto coltivano le lettere e le arti,
completamente scollegati dal popolo e dalla terra,
comincia il lungo medioevo Giapponese 54
(1185
fine dell’era heian - 1868 inizio della restaurazione
Meiji). E’ nel periodo del medioevo che lo zen fa il suo ingresso in
Giappone e comincia a farsi strada tra i ceti guerrieri che combatteranno
quasi ininterrottamente per quattrocento anni. In seguito con il periodo
relativamente pacifico di Edo e il ridimensionamento dei privilegi dei
Samurai voluto dagli Shogun Tokugawa (1603 - 1868), il rapporto tra
Zen e arti marziali verrà ulteriormente approfondito.
La comparsa sulla scena giapponese di un nuovo sistema di
governo determina una liberazione sul piano spirituale e morale, questo
permette a nuove idee di farsi strada e alle religioni e filosofie di
evolversi e conquistare il popolo 55 . Particolarmente si fanno strada
l’Amidismo , con le sue teorie pietiste, l’intransigenza di Nichiren 56
, lo
Zen e la sua pratica meditativa.
In precedenza, il buddismo del periodo Heian era essenzialmente
aristocratico, della religione il popolo conosceva solo aspetti semplici,
31 ch’an in cinese
54 Nel 1185 termina la lotta tra i due maggiori clan, i Taira vengono sconfitti dai Minamoto,
Yoritomo Minamoto, che ha creato un governo militare a Kamakura (il Bakufu) viene insignito
nel 1192 dall’imperatore del titolo di Seii Taishogun (generale in capo). Quasi sette secoli dopo il
potere tornerà all’imperatore sancendo l’inizio della restaurazione Meiji (1868
- 1912) dove il
Giappone comincia la sua modernizzazione. Cfr. L. Frédéric - La vita quotidiana in Giappone al
tempo dei samurai - BUR Milano 1987
55 Cfr. L. Frédéric - La vita quotidiana in Giappone al tempo dei samurai - BUR Milano 1987
56 Una setta che oggi ha il nome di Sokka Gakkai, ed in Giappone è perfino rappresentata in
parlamento attraverso un partito a lei collegato, dove sostiene il governo conservatore.
43

gli insegnamenti delle sette esoteriche erano compresi solo da pochi
iniziati e sfuggivano anche alla maggioranza dei monaci.
Lo Zen, figlio delle dottrine meditative della scuola indiana del
Dhyana, e che in Cina si chiamava Ch’an, prese piede con il ritorno dalla
Cina del monaco Eisai (1141 - 1215), che fondò la setta Rinzai. A Eisai
successe Dogen (1200 - 1253) il quale fondò nel 1244 un'altra setta Zen
chiamata Soto. La filosofia dello zen implicava lunghe sedute di
meditazione da praticare seduti e in silenzio, in grande concentrazione,
da raggiungersi attraverso un addestramento mentale piuttosto difficile,
aveva quindi poche possibilità di divenire popolare, eppure, il totale
distacco dall’io necessario per raggiungere la percezione intuitiva della
realtà ultima, interessò alcuni guerrieri di alto rango, i quali attinsero
dallo zen, un arte di battersi, vivere e morire, senza troppo curarsi delle
preoccupazioni di questo mondo. Il grande successo dello Zen in
Giappone si deve anche alla grandezza dei suoi interpreti, alcuni dei
quali furono consiglieri influenti degli Shogun.
Inoltre lo zen si fece carico di salvare le lettere e le arti sulle quali
ebbe, quindi, una forte influenza, si può anzi dire che esse non sarebbero
sopravvissute senza i monaci Zen, a quattro secoli di guerre civili. Lo
zen si fece carico anche del soccorso ai poveri, e della creazione di molte
scuole.
Lo Zen che può essere descritto non è lo Zen
Questa frase, parafrasi di un detto sul Tao attribuito al capostipite
del taoismo Lao Tzu, dovrebbe mettere in guardia chiunque si avventuri
nella lettura di testi sullo zen, eppure esiste su questo argomento, una
bibliografia sterminata. In realtà è inutile cercare di spiegare lo zen con
le parole, esso potrebbe forse essere descritto come una esperienza
psicofisica interiore, attraverso la quale si ricerca il congiungimento con
il tutto, queste parole possono però non significare nulla e sono, per
l’appunto, parole, contenitori che ognuno può riempire con la propria
44

esperienza diretta dello Zen, l’unica possibile, ovvero la pratica
meditativa.
La meditazione Zazen
Zazen è la meditazione seduta, pratica principale del buddismo
zen. Si vuole che la meditazione seduta fosse il metodo che permise al
Budda Gotama di ottenere la suprema illuminazione e raggiungere la
“buddità” nel giorno del suo quarantesimo compleanno, sotto la luna
piena di maggio, nella notte di wesak 57 La tecnica di meditazione in
questione è descritta nel Discorso numero dieci del Canone Pali
Majjhima Nikaja, del quale trascrivo alcuni frammenti:
dal Canone Pali Majjhima Nikaja, Discorso numero dieci
L'applicazione dell'attenzione:
Così ho udito: Una volta il Signore Buddha si trovava nel paese
dei Kuru, in una città dei Kuru chiamata Kammassadhamma.
Mentre si trovava là, si rivolse ai monaci appellandoli: "O monaci". "Si,
o Signore" risposero i monaci ponendosi attenti.
E il Signore Buddha disse: "Vi è una sola Via o monaci per
purificare gli esseri, per vincere le inquietudini, e le sofferenze, per
eliminare i dolori e le miserie, per entrare nel giusto Cammino e
realizzare il Nibbana e questa Via consiste nelle quattro applicazioni
dell'attenzione.
Quali quattro? Un monaco si applica alla contemplazione del
corpo come corpo, con ardore, chiaramente consapevole e attento, così
da controllare le bramosie e gli inganni causati dai sensi;
...omissis: la
stessa formula, oltre che per la contemplazione del corpo come corpo
viene ripetuta per le sensazioni, la mente, le formazioni mentali.
57 Quaranta anni più tardi, all’età di ottant’anni, morirà sempre sotto la luna piena di maggio,
dando così origine alla festa buddista di Wesak che, paragonata al cristianesimo, è una somma di
natale e pasqua.
45

E come può un monaco applicarsi a contemplare il corpo come
corpo? Esso dopo essersi ritirato in una foresta, oppure ai piedi di un
albero o anche in un luogo isolato, si siede con le gambe incrociate, con
la schiena eretta, ponendo la sua attenzione di fronte a sé. Attento egli
inspira e attento egli espira. Se sta facendo una inspirazione lunga è
consapevole: "Sto facendo una inspirazione lunga"; oppure se sta
facendo una espirazione lunga è consapevole: "Sto facendo una
espirazione lunga"; idem per inspirazione ed espirazione corta. Egli si
allena così pensando: "Inspirerò esperimentando ogni parte del corpo
(del respiro)"; oppure si allena pensando: "Espirerò esperimentando ogni
parte del corpo
(del respiro)". O anche si allena pensando: "Inspirerò
tranquillizzando le attività del corpo
(del respiro)"; oppure si allena
pensando: "Espirerò tranquillizzando le attività del corpo (del respiro)".
O monaci, così come un abile tornitore o un apprendista tornitore
quando fa una passata lunga pensa: "Sto facendo una passata lunga" o
quando fa una passata corta pensa: "Ora sto facendo una passata corta",
nella stessa maniera un monaco che sta inspirando o espirando un
respiro lungo o corto è consapevole di inspirare o espirare un respiro
lungo o corto e si allena sperimentando inspirazione e espirazione lunga
o corta su tutte le parti del corpo
(del respiro) tranquillizzando in tal
modo le sue attività corporali.
Così un monaco si applica alla contemplazione del corpo come
corpo sia dall' interno che dall' esterno, oppure contemplandolo
alternativamente dall' interno e dall' esterno. O anche dimora
contemplando nel corpo il sorgere delle cose e il dissolversi delle cose.
Oppure anche pensando: "Questo è il corpo", egli fissa l' attenzione
appena il tempo necessario per una chiara comprensione e una
appropriata attenzione di questo, ma resta indipendente e senza
attaccamento verso alcuna cosa del mondo.
E' così anche o monaci che un monaco si applica alla
contemplazione del corpo come corpo. E ancora o monaci, un monaco
quando cammina è consapevole "Sto camminando"; oppure quando è in
46

piedi fermo, è consapevole: "Sto in piedi fermo"; quando è seduto, è
consapevole "Sto seduto"; oppure quando è sdraiato, è consapevole: "Sto
sdraiato". Così, in qualunque posizione sia il suo corpo, egli ne è
consapevole.
In tal modo si applica contemplando il suo corpo sia dall' interno
che dall' esterno, contemplando il sorgere e il dissolversi delle cose nel
corpo oppure anche pensando: "Questo è il corpo" fissa la sua attenzione
appena il tempo necessario per una chiara comprensione ed una
appropriata attenzione di questo senza però attaccarsi ad alcunché del
corpo.
Ed è così anche che un monaco contempla il corpo come corpo.
... omissis: segue la descrizione del corpo come involucro, della sua
caducità; seguono, con lo stesso metodo appena descritto per la
contemplazione del corpo come corpo, quella delle sensazioni come
sensazioni, della mente come mente, delle formazioni mentali come
formazioni mentali.
Chiunque, o monaci, svilupperà queste quattro applicazioni
dell'attenzione per sette anni, ne avrà come risultato o il raggiungimento
della perfetta conoscenza qui ed ora oppure restando alcun residuo
(karmico), uno stato futuro senza ritorno in questo mondo.
Ma non occorrono sette anni. Chiunque, o monaci, svilupperà
queste quattro applicazioni dell' attenzione per sei anni, cinque anni,
quattro anni, tre anni, due anni, un solo anno, otterrà sempre uno di
questi due frutti: o la perfetta saggezza qui e ora oppure, restando un
residuo
(karmico), uno stato senza ritorno in questo mondo. Ma o
monaci, neppure un anno è necessario. Chiunque svilupperà queste
quattro applicazioni dell'attenzione per sette mesi, sei mesi, cinque mesi,
quattro mesi, tre mesi, due mesi, un solo mese o anche mezzo mese o
sette giorni soltanto avrà come risultato uno dei due frutti: o la perfetta
saggezza qui e ora oppure, restando un residuo karmico, la condizione di
un essere che non tornerà più in questo mondo.
47

Quanto detto chiarisce la mia dichiarazione: "Vi è una sola via o
monaci per la purificazione degli esseri, per vincere la sofferenza e l'
insoddisfazione, per eliminare il dolore e le miserie, per guadagnare il
giusto Cammino, per realizzare il Nibbana, ed è quella delle quattro
applicazioni dell' attenzione".
Così parlò il Signore Buddha. Contenti i monaci si rallegrarono per
quanto il Signore Buddha aveva detto 58 .
La vacuità
Detto in cosa consiste la pratica dello Zen, resta da capire in che
modo esso possa dare ad un guerriero maggiori capacità, la risposta è
probabilmente nello stato di vacuità che Zen e arti marziali perseguono,
l’uno alla ricerca della comprensione del tutto, le altre alla ricerca
dell’azione che sorge dall’inconscio.
Molto interessanti a questo riguardo le considerazioni di Daisetz T.
Suzuki nell’introduzione al libro di Eugen Herrigel “Lo Zen e il tiro con
l’arco 59 ”: Suzuki scrive:
“Uno degli esercizi essenziali nell’esercizio del
tiro con l’arco e delle altre arti che vengono praticate in Giappone
… è
il fatto che esse non perseguono alcun fine pratico e neppure si
propongono un piacere puramente estetico, ma rappresentano un
tirocinio della coscienza e devono servire ad avvicinare alla realtà
ultima. Così il tiro con l’arco non viene esercitato soltanto per colpire il
bersaglio, la spada non si impugna per abbattere l’avversario, il
danzatore non danza solo per eseguire certi movimenti ritmici del corpo,
ma anzitutto perché la coscienza si accordi armoniosamente
all’inconscio.
Per essere veramente maestro nel tiro con l’arco la conoscenza
tecnica non basta. La tecnica va superata così che l’appreso diventi un
arte inappresa che sorge dall’inconscio. Nel caso del tiro con l’arco
58 Cfr. a cura di Pio Fillipani Ronconi “ Buddha, aforismi e discorsi ” Tascabili economici Newton
Roma 1994
59 Cfr. Eugen Herrigel - Lo Zen e il tiro con l’arco - Adelphi Milano 1991
48

questo significa che il tiratore e il bersaglio
(il karateka e il suo
oppositore ndr.) non sono più due cose contrapposte ma una sola realtà.
L’arciere non è più consapevole di dover colpire il bersaglio davanti a
lui.
Ma questa condizione di inconsapevolezza egli la raggiunge solo
se è perfettamente libero e distaccato da sé, se è tutt’uno con la
perfezione della sua abilità tecnica. E’ una cosa diversa da ogni
progresso che potrebbe essere raggiunto nell’arte del tiro con l’arco.
Questa cosa viene chiamata Satori
“intuizione” che però differisce dal
concetto occidentale. E’ una intuizione Prajna ovvero una saggezza
trascendentale
… una intuizione che afferra immediatamente la totalità
assieme all’individualità, di tutte le cose
… e questo non si intende in
senso simbolico o matematico, ma è un esperienza per percezione
diretta. Perciò Satori in termini psicologici è un “oltre i confini dell’IO”.
Da un punto di vista logico è scorgere dell’affermazione e della
negazione, in termini metafisici è affermare intuitivamente che l’essere è
il divenire e il divenire l’essere.
… Qui tocchiamo il rapporto tra lo Zen e le arti marziali o le altre
cerimonie tradizionali. Lo zen è la coscienza quotidiana (consapevolezza
di sé ndr.) è mangiare quando si ha fame, dormire quando si ha sonno.
Non appena noi consideriamo, riflettiamo e formiamo concetti,
l’inconsapevolezza originaria va perduta e sorge un pensiero
… la
freccia non va più dritta al bersaglio e anche il bersaglio non è la dove
dovrebbe stare.
… L’uomo è un essere pensante eppure le sue più grandi opere
vengono compiute quando non calcola e non pensa. Dobbiamo
ridiventare bambini attraverso lunghi anni di esercizio nell’arte di
dimenticare se stessi. Quando questo è raggiunto l’uomo pensa eppure
non pensa …”
Suzuki continua dicendo che l’uomo che trascenda completamente
il pensiero di sé diviene un maestro Zen, il quale non avrà più necessità,
per esprimersi, degli strumenti dell’arte che ha scelto, non avrà più
49

bisogno dell’arco ne di freccia e bersaglio, egli comprende tutto in se. È
il concetto dell’arte senz’ arte.
Divergenze
Occorre però tenere presente che le arti marziali, e nel nostro
specifico il Karate, non possono confondersi completamente nella
dottrina o nella pratica Zen. Infatti anche se la meditazione seduta in
Zazen può essere per il Karateka di grande aiuto nella sua pratica, così
come un Kata di karate può essere per un monaco fonte di illuminazione,
pure le arti marziali sono qualcosa di diverso dallo Zen, si prefiggono
uno scopo preciso e dei fini che in fondo, non paiono conciliabili con
l’etica buddista.
Nel libro intervista
“l’arte del combattere 60 ” Kenji Tokitsu riporta
alcune considerazioni del maestro Hakuin, figura centrale della storia
dello Zen in Giappone. A chi gli chiedeva se un guerriero dovesse
studiare lo Zen per perfezionare la sua arte Hakuin diceva che secondo
lui era il monaco Zen a dover studiare i fondamenti della vita del
guerriero, il Budo.
Secondo Hakuin “se i cattivi samurai facessero Zazen come fanno
le arti marziali potrebbero avanzare verso l’essenziale dello zen in un
mese tanto quanto un monaco in un anno”
Tokitsu spiega così le parole di Hakuin:
“il maestro intende che
troppo spesso si pratica lo Zen come uno svago e che se lo si praticasse
nella maniera del guerriero, che investe la sua vita, i risultati sarebbero
molto più rapidi. Inoltre con le arti marziali ci si cala direttamente nella
questione della vita e della morte.”
Secondo Tokitsu comunque, questo non è un elogio per i samurai
quanto, una doppia critica ironica per loro e per i monaci, Hakuin dice ai
monaci che manca loro il dinamismo e la forza di decisione dei Samurai,
ai Samurai egli dice che con le possibilità che hanno è un peccato che
60 Kenji Tokitsu “ l’arte del combattere ” Oriental Press Milano 2003
50

non aprano gli occhi ad un mondo molto più vasto di quello che essi
intendono.
Ancora Tokitsu, in “Lo Zen e la via del Karate 61 ” indica dove,
secondo lui le due arti divergono, scrive:
“Il Karate è una tecnica di
combattimento a mano nuda mediante la quale si cerca di ottenere la
massima efficacia possibile, che tuttavia non può essere raggiunta con
un esercizio che sia solo fisico. Se si ricerca la massima efficacia,
inevitabilmente si penetra nella sfera psichica, dal momento che si tratta
di combattere con altri uomini … Spesso si dice che lo scopo del karate
è quello di vincere se stessi, ma io non sono dello stesso avviso … Se lo
scopo è di vincere se stessi allora è meglio praticare la meditazione Zen.
Non è possibile assimilare la ricerca del Karate ad un procedimento
religioso, poiché si tratta di combattere, si tratta di vita o di morte. Nello
Zen, questo è un problema superato, poiché vita e morte non sono
separate in quanto tali ma tra l’una e l’altra c’è continuità e la morte del
corpo non significa la morte vera e propria”.
Il Karate come mezzo di realizzazione di sé
Nel karate si parte da concreti movimenti corporei e non si potrà
mai raggiungere uno scopo che sia troppo astratto. Il risveglio va di pari
passo con la pratica; in questo il karate si collega alla meditazione Zen.
Secondo Tokitsu infatti realizzare il massimo dell’efficacia nel
karate significa realizzarsi pienamente come uomo, e le due cose non
possono andare che di pari passo. Questo stato varia qualitativamente a
seconda dell’età e non è lo stesso a venti o a quaranta o a ottanta anni,
l’efficacia sarebbe composta da due componenti, capacità tecnica e stato
psichico. Con questo presupposto la ricerca dell’efficacia nel Karate
corrisponde alla ricerca della completa realizzazione come essere umano
e si ottiene con una pratica che dura tutta una vita, proprio come la
ricerca che si fa con lo Zen attraverso la pratica seduta di Zazen.
61 Kenji Tokitsu “Lo zen e la via del Karate” Sugarco edizioni Varese 1992
51

L’autodisciplina
Si potrebbe obiettare, con una buona dose di ironia, che se in
oriente Zen e arti marziali sono un buon metodo per ottenere la
realizzazione di sé come persona pienamente efficace nella società,
allora forse, in occidente, potrebbe essere altrettanto valida l’ accoppiata
“gioco del calcio e cattolicesimo” secondo la formula a noi ben nota e
culturalmente affine del
“mens sana in corpore sano”. Ed in effetti la
cultura sportiva occidentale possiede una indubbia valenza educativa,
così come, la religione può certamente dare all’individuo gli elementi di
compassione, condivisione, rispetto, che gli servono per trovare il suo
posto nella società.
La differenza sostanziale rispetto alla visione orientale e
particolarmente a quella Giapponese, risiede nel concetto di
autodisciplina, per descriverlo mi servo nuovamente del libro della
Benedict 62 .
Una diversa concezione
La Benedict parte confrontando le tecniche di autodisciplina
presenti nella cultura Giapponese e in quella Americana e analizzando i
diversi scopi per i quali esse vengono utilizzate. Osserva che negli Stati
Uniti è relativamente poco sviluppata una tradizione di tecniche di
autodisciplina, esse vengono si messe in opera da un individuo che
persegua il successo in un determinato campo, ma non ci si aspetta che i
componenti della società siano in possesso di tecniche, ne che queste
siano organizzate in un metodo di insegnamento.
Per i giapponesi le cose stanno diversamente, ogni ragazzo che si
accinga a superare gli esami di scuola media deve conoscere le tecniche
di autodisciplina, indipendentemente dalle altre materie di insegnamento
così come è tenuto a conoscerle ogni membro della società.
62 Ruth Benedict “ Il crisantemo e la spada ” Edizioni Dedalo Bari 1993
52

Tecniche di potenza e tecniche di saggezza
La Benedict ci dice che i Giapponesi dividono schematicamente
in due gruppi le tecniche di autodisciplina, un primo gruppo tende a far
acquisire un certo tipo di capacità o competenza, l’altro tende a dare
qualcosa di più, qualcosa definito
“conoscenza” o
“saggezza”. Le
tecniche del primo tipo, si basano sul dominio della volontà sul corpo,
esso deve considerarsi sempre suscettibile di ulteriori miglioramenti.
Quando sono in gioco i valori più importanti della vita, le esigenze del
corpo devono essere drasticamente accantonate senza badare a possibili
conseguenze per la salute.
Mentre in occidente, la ferrea disciplina a cui ci si sottopone, ad
esempio per affermarsi nello sport, è vista generalmente come un
sacrificio che darà i suoi frutti, la mentalità Giapponese esula da questa
visione. Per quanto duro possa essere l’allenamento, esso non verrà
percepito, ne vissuto come un sacrificio ma come un fatto
indispensabile, assolutamente necessario, L’autodisciplina, la Shuyo,
diviene lo strumento per assaporare appieno il gusto della vita.
L’autodisciplina, per dirla come la direbbe un giapponese
“da lo
stomaco all’uomo 63 “. Secondo un espressione tipica in Giappone
“lo
shuyo fa sparire la ruggine dal corpo e fa di un uomo una spada lucente e
affilata”.
La Benedict passa poi a descrivere le forme di autodisciplina che
danno la saggezza. Secondo l’autrice lo studio delle motivazioni che
spingono i Giapponesi a mettere in pratica queste tecniche è un valido
aiuto per intendere le caratteristiche fondamentali della mentalità
Giapponese.
Nella lingua giapponese esistono molti termini per descrivere lo
stato mentale che può essere raggiunto da chi diviene esperto in queste
forme di autodisciplina, siano essi attori, schermitori, religiosi, oratori,
pittori, o maestri della cerimonia del tè, la Benedict riassume tutti questi
63 ovvero l’hara, la zona corrispondente circa all’ ombelico, dove per gli orientali hanno sede le
capacità di autocontrollo.
53

termini con la parola Giapponese Muga 64 , che è il termine in uso presso
gli adepti dello Zen.
Muga ovvero il vuoto
Muga viene descritto 65 come uno stato d’animo caratteristico di
quelle esperienze mondane o religiose, durante le quali
“non vi è la
minima frattura, non vi è lo spessore di un capello tra la volontà di un
individuo e la sua azione”. Diversamente, per chi non ha raggiunto la
conoscenza, esiste una sorta schermo isolante che si frappone tra la
volontà e l’azione.
I Giapponesi chiamano questo schermo “l’io che osserva” o ”l’io
che interferisce”. Solo quando esso è stato rimosso, mediante un
allenamento condotto secondo speciali tecniche, l’individuo, divenuto
esperto, potrà perdere quel senso di consapevolezza 66 che normalmente
accompagna le sue azioni, allora il circuito sarà libero, l’azione si attuerà
senza sforzo, dirigendosi direttamente ed inequivocabilmente a
realizzare il suo scopo, e risulterà un espressione completa e fedele
dell’immagine che colui che agisce si era mentalmente prefigurata.
Benedict osserva che in Giappone, anche le persone più comuni
cercano di acquisire questo tipo di conoscenza o saggezza, i Giapponesi
infatti collegano l’opportunità di un allenamento mentale diretto ad
avere uno stato d’animo calmo ed equilibrato con un esame, o con la
pronuncia di un discorso o con la carriera di un uomo politico, essi
ritengono che le tecniche atte a rendere univoca ed infallibile l’azione,
rappresentano un vantaggio in quasi tutte le attività umane.
64 Che possiamo tradurre con “senza ego ne sostanza” dove sostanza ha il senso di “noumeno”
65 Ruth Benedict “ Il crisantemo e la spada ” Edizioni Dedalo Bari 1993
66 Per lo zen si tratta di una falsa consapevolezza, la vera consapevolezza è “essere parte dei
mille e dei diecimila fenomeni” nello stesso attimo, ovvero essere confusi con il tutto
54

La perfezione qui ed ora
Ancora, Benedict osserva che pur essendo molte le culture che
hanno elaborato tecniche di questo genere, tuttavia in questo campo la
cultura Giapponese presenta oggi caratteristiche piuttosto autonome
anche se le tecniche in questione traggono la loro origine dall’India dove
sono note con il nome di Yoga, i Giapponesi le hanno adattate alle loro
finalità svuotandole dalla carica di severo ascetismo e mortificazione di
se che le caratterizzava in origine.
Effettivamente lo stesso culto Zen prescrive di evitare
l’insufficienza nelle tre cose primarie e cioè nel vestiario, nel cibo, nel
sonno.
Benedict scrive 67 : “Con un vitale amore per il finito che ricorda
quello degli antichi greci, il Giappone intende le tecniche dello Yoga
come un mezzo per auto addestrarsi alla perfezione, come uno strumento
mediante il quale l’uomo può acquisire quella conoscenza, per cui non vi
è lo spessore di un capello tra la volontà e l’azione, come un
addestramento all’efficienza, alla fiducia in se stessi. I frutti si
raccolgono in questa vita, dato che il risultato cui si aspira è quello di
porre l’uomo in grado di affrontare qualsiasi situazione con l’esatta
quantità di energia che serve, ne troppa ne troppo poca, offrendogli al
tempo stesso la possibilità di controllare la propria mente.”
Ancora sullo stretto rapporto tra Zen e arti marziali Benedict
scrive:
“Un addestramento psichico di questo genere può ovviamente
essere prezioso tanto per un guerriero che per un sacerdote, in effetti
furono proprio i guerrieri giapponesi i primi a far proprio il culto Zen.
Oltre al Giappone non sarebbe facile indicare altri paesi dove le
tecniche proprie del misticismo vengano praticate senza la contropartita
delle supreme esperienze mistiche e dove siano stati proprio i guerrieri i
primi a metterle in pratica e a servirsene per i combattimenti corpo a
67 Ruth Benedict “ Il crisantemo e la spada ” Edizioni Dedalo Bari 1993
55

corpo. In realtà ad ogni modo furono proprio queste le forme con cui, sin
dai primi inizi, il culto zen esercita la propria influenza in Giappone.
Il grande libro di Eisai, il fondatore dello Zen in Giappone nel
dodicesimo secolo, portava il titolo
“La protezione dello stato mediante
la diffusione dello Zen.
Da allora in poi lo zen ha addestrato guerrieri, statisti,
schermidori e studenti a raggiungere finalità assolutamente mondane”.
E per concludere:
“Si sarebbe portati a supporre che questa
dottrina mistica e contemplativa, che fonda la propria verità non su di un
testo scritto ma su un immediata esperienza della mente umana, dovesse
fiorire in un periodo così turbolento come quello compreso tra il
dodicesimo ed il tredicesimo secolo, nel tranquillo rifugio della vita
monastica, tra coloro che avevano abbandonato le tempeste del mondo, e
non già che venisse recepita con tanto favore dalla classe militare per
farne la propria norma di vita. Ma in realtà proprio questa fu la sorte
dello Zen in Giappone”.
56

8 Il Kata
I Kata del Karate
Il Kata è una delle principali pratiche di insegnamento del Karate
tradizionale, letteralmente può venire tradotto come “forma”. Il kata, nel
Karate e nelle altre arti nel quale viene utilizzato, è composto da un certo
numero di movimenti concatenati, codificati e finiti, che mimano un
combattimento contro più avversari.
Ogni stile di Karate ha scelto nel tempo un certo numero di Kata
tra quelli che maggiormente ne rispecchiano l’anima. Per fare un
esempio, la scuola Shotokai Italia oggi insegna 16 kata, selezionati dal
Maestro Egami tra quelli che venivano praticati nel Dojo Shotokan del
Maestro Funakoshi.
Ma il Kata non è solo un metodo di insegnamento del Karate o
delle arti marziali o delle arti tradizionali in genere, esso è un veicolo di
trasmissione culturale fondante della cultura Giapponese, che trova
spiegazione nella peculiarità della storia di questo paese e di questo
popolo.
Per Kenji Tokitsu 68 ,
“il Kata implica un quadro rigido che
definisce quello che si ricerca, il mondo esteriore ed interno e, perciò
stesso, il posto che si occupa in relazione agli altri”.
Questa la definizione di partenza:
“Sequenza composta di gesti
formalizzati e codificati sottesa da uno stato di spirito orientato verso la
realizzazione della via
(il Do)”. Nella cultura Giapponese realizzare la
via è raggiungere la tecnica perfetta, che è il mezzo attraverso il quale si
esprime l’uomo perfetto.
Un Kata non è opera di una sola persona ma il depositato di un
sapere tradizionale che si sedimenta su di esso, generazione dopo
generazione. Nell’allenamento al Kata, essendo specchio a se stessi, ci si
da risposta alle domande che si è in grado di porsi.
68 Kenji Tokitsu - Kata - Oriental Press 2004
57

Watsuji Tetsuro scrive 69 che esiste nella società Giapponese una
“tendenza etnica ad accordare fiducia solo ai fatti colti intuitivamente e a
trascurare l’apprendimento attraverso la riflessione logica”.
Ed infatti secondo noi il Kata rappresenta un modo per coltivare
e rafforzare il pensiero intuitivo.
Il Do o la Via
La perfezione tecnica nella realizzazione del Kata implica che chi
lo esegue sia immerso nel Do, nella via. Tokitsu descrive il do come
“una via che conduce verso uno stato di spirito che
libera le facoltà umane nei diversi campi delle arti”,
questo stato spirituale può essere attinto mediante
l’approfondimento di una disciplina e il rispetto dei
precetti che regolano l’universo quindi la società. Il
processo di perfezionamento è quello della realizzazione della
personalità per intero ed in armonia con gli uomini e con la natura.
Secondo Tokitsu, l’immagine riflette una sensibilità collettiva e
trasmessa
prestissimo
dall’educazione
familiare.
Essendo la
formalizzazione stessa di questa sensibilità collettiva, il Kata,
contribuisce quindi a conservarla. Per mantenersi in equilibrio questo
rapporto necessita di un gruppo sociale omogeneo in cui la
comunicazione è largamente implicita, equilibrio che si rompe
immediatamente in un ambito sociale eterogeneo.
Il Kata si inquadra in profondità nella tradizione Giapponese e
non può essere concepito senza riferimenti storici culturali e sociali.
Il Sakoku o il grande isolamento
E’ detto Sakoku, il grande isolamento al quale fu costretto il
Giappone, dall’inizio del diciassettesimo secolo, fino al
1868, dagli
69 Watsuji Tetsuro „Sakoku“ Chikuma 1964 il testo non tradotto dal giapponese è citato da
Tokitsu nel libro KATA
58

Shogun Tokugawa, decisione, presa al fine di preservare la
stabilizzazione del paese, mantenendolo in un universo chiuso e molto
gerarchizzato.
Tokitsu ritiene 70 che un processo di interiorizzazione e
rivolgimento su se stesso abbia pervaso tutta la società Giapponese
durante il Sakoku e che questa sia stata la chiave per la stabilizzazione
del modello del Kata.
Il Giappone fino al Sakoku
La prima forma stato appare in Giappone nel III° secolo, alla fine
del IV° esso si espande fino alla Corea, da questo momento la cultura
comincia ad essere fortemente influenzata da quella Cinese, prima con
l’introduzione della scrittura ideogrammatica, poi con l’ingresso del
Confucianesimo e del Buddismo ed infine della forma stato di tipo
feudale. Fino a questo momento non esisteva proprietà fondiaria, terre e
contadini dipendevano dall’Imperatore, i nobili erano funzionari
imperiali dotati di poteri militari.
Sfruttando le possibilità concesse dall’editto imperiale del
‘743
che concedeva loro le terre appena dissodate e quelle sottratte alle
popolazioni dei
“barbari” Ainu nel nord del paese, i funzionari
cominciano ad acquisire consistenza terriera e ad organizzarsi in clan.
Essendo gravate da imposte molto più basse che quelle imperiali, queste
terre attirano in massa i contadini. I clan accrescono la loro potenza,
l’apogeo è a metà del IX secolo quando la famiglia Fujiwara accede al
potere. Lo manterrà per tre secoli.
I tre secoli di dominazione dei Fujiwara corrispondono all’incirca
all’età dell’oro della cultura Giapponese, in concomitanza con quella
cinese sotto la dinastia T’Ang (608
-
907). Il potere dei guerrieri stava
però per affermarsi, i clan si organizzano in forze militari, nel
1192
viene costituito il primo governo militare (Bakufu).
70 Kenji Tokitsu - Kata - Oriental Press 2004
59

E’con l’inizio del medioevo che anche la religione viene
riformata e che il culto zen si diffonde tra i guerrieri 71 . Alla fine del XIII
secolo un colpo di scena incide nell’immaginario dei Giapponesi al
punto di fargli vedere, per la prima volta, il loro paese come uno, in
contrapposizione a ciò che veniva da fuori. Questo evento è il doppio
tentativo di invasione dei Mongoli, tentativo che viene sventato più per
l’aiuto provvidenziale della natura, sottoforma di tifone che distrugge le
navi di Gengis Kan 72 , che non per la grande mobilitazione di guerrieri da
tutto il paese voluta dallo Shogun.
I primi contatti con gli occidentali avvengono quando gli ex pirati
Wako, ormai divenuti commercianti, organizzano un importante
commercio di import export con la Cina e il sud est asiatico. Verso la
metà del XV secolo, sulle loro tracce arrivano in Giappone, i Portoghesi
prima e i Gesuiti poi, con San Francesco Saverio. In questo periodo lo
Shogun Oda Nobunaga Comincia a stabilire la sua egemonia sul
Giappone, la sua missione verrà completata dal successore Toyotomi
Hideyoshi, sotto la sua guida il Giappone verrà unificato.
Nel tentativo di amministrare la pace, finalmente ritrovata dopo
lunghi secoli di guerre intestine, Ideyoshi emana l’editto “ Katana Gari ”,
con il quale vieta il porto della spada a chiunque non faccia parte della
classe dei guerrieri, contestualmente instaura la responsabilità collettiva
penale per indebolire i clan. Il successore di Ideyoshi, Tokugawa,
prosegue il cammino dell’irrigidimento della società, l’ultimo e
fondamentale atto è il decreto di
“Sokoku” ovvero chiusura del
Giappone, secondo il quale:
“Nessun Giapponese, nessuna nave Giapponese possono andare
all’estero e nessun Giapponese che sia andato all’estero può tornare. I
meticci saranno cacciati. La corrispondenza con l’estero è proibita. Ogni
mancanza sarà punita con la morte”.
Al Sakoku si unì una divisione in classi alla quale non erano
ammesse deroghe. Al vertice della piramide erano i Nobili, ma essi
71 - Vita quotidiana in Giappone ai tempi dei samurai - BUR Milano 1987
72 Chiamato da allora Kami-Kaze ovvero vento divino
60

rappresentavano un gruppo a parte, escluso dal potere e costretto in una
cerchia chiusa su se stessa. I guerrieri erano i veri detentori del potere,
beneficiari della rendita fondiaria, erano organizzati in un ulteriore
sistema piramidale di tipo feudale. Venivano poi i contadini, che erano
stati legati alla terra senza diritto di spostamento. In fondo alla gerarchia
vi erano artigiani e commercianti ma esisteva anche un gruppo di esseri
subumani, incaricati dei compiti più ingrati 73
Esiti e fine del Sakoku
Durante il Sakoku il limite del mondo venne fissato per i
Giapponesi alla linea dell’orizzonte, questo comportò una regressione a
livello sociale, l’energia accumulata, venne rivolta progressivamente
verso l’interiorità. Secondo Tokitsu L’irrazionalità della lingua
giapponese non è priva di relazioni con questo lungo esilio, messo in
atto proprio mentre il mondo e la cultura occidentali entravano in un
periodo di razionalismo universalistico e lo esportavano nel mondo. La
cultura Giapponese diviene sempre più autoreferenziale, rigida, essa
avviluppa l’individuo in una fitta rete di obblighi mutuati dal culto
Scintoista, dall’ etica del Confucianesimo, dall’estetica e dalla
spiritualità dello Zen 74 .
Il modello di trasmissione culturale diviene (anche se non sempre
in modo consapevole) il Kata, fondamentale è la capacità di
comprensione intuitiva e riferita ad un ambito culturale fortemente
interiorizzato e condiviso.
In modo abbastanza improvviso, intorno al
1868, l’imperatore
torna in possesso del potere, rovesciando lo Shogunato 75 . Vengono
aboliti gli ordini feudali e i privilegi dei guerrieri, viene istituita una
“uguaglianza istituzionalizzata”. La proprietà privata succede a quella
73 Benché si cerchi di negarlo questo gruppo sociale esiste anche oggi.
74 Kenji Tokitsu - Kata - Oriental Press 2004
75 In realtà, caduto lo Shogun, una sollevazione di Samurai avviene dopo la promulgazione dell’
Hattorei, l’editto che vieta il porto della Katana (la spada samurai). Nella battaglia di Satsuma
30.000 Guerrieri ribelli vengono sconfitti dal moderno esercito imperiale. I superstiti della
battaglia faranno tutti Seppuku. Cfr. “ Arti d’oriente ” Oriental Press, luglio agosto 2005 pag. 13
61

feudale, i guerrieri vengono indennizzati con un prestito dello stato,
detentori di capitale i guerrieri potrebbero divenire gli interpreti di un
nuovo ceto commerciale ed imprenditoriale ma l’abitudine
all’obbedienza incondizionata ad un signore e il disprezzo per i beni
materiali non si coniugano con il successo in questo campo, i guerrieri
avranno maggior efficacia nella burocrazia, nell’esercito, nella polizia,
nell’insegnamento.
Soprattutto però si riapre l’orizzonte, la circolazione delle
persone diviene libera e le frontiere si aprono, chiuso in se stesso per
duecento anni, il Giappone parte alla conquista del mondo rafforzando
l’esercito e sviluppando l’industria. In questo campo soprattutto il
successo del Giappone fu rapido e brillante, proprio grazie alle
peculiarità del paese e della sua gente.
Dall’inizio della restaurazione Meiji alla resa del Giappone nella
seconda guerra mondiale avvenuto il
14 agosto
1945 la politica del
Giappone fu sempre improntata a un militarismo espansionista. Più che
aprirsi all’occidente il Giappone si aprì alla tecnologia occidentale e si
dette l’obiettivo di inglobare nell’impero il più vasto spazio possibile,
cosa che nel corso del
1943 toccò un livello impensabile. I confini
dell’impero
andavano
dalla
Manciuria alla Cina, alla Corea,
all’Indocina, alle isole Marianne,
alle Filippine, un Impero enorme,
impossibile da gestire per un
popolo così poco numeroso,
anche se dotato di un esercito
efficientissimo,
potente
e
potentemente armato.
La fine
di
questo
atteggiamento espansionista arriva con la resa militare del
1945, ma a
cambiare è solo il modo in cui il Giappone esercita la ricerca del
62

“proprio ruolo nel mondo” 76 , l’espansionismo militarista viene
trasformato in pochi decenni in un espansionismo basato sul predominio
economico tecnologico ed industriale.
Il Karate come lo conosciamo viene formalizzato proprio in
questo periodo storico che va dalla restaurazione Meiji alla fine della
seconda guerra mondiale, un arte marziale figlia della più antica
tradizione si sviluppa nell’era della modernizzazione forzata, il
cortocircuito insito in questo fenomeno è paradigmatico della società
Giapponese. Il passaggio dal medioevo alla modernità per il Giappone
non avviene nel tempo ne attraverso mediatori culturali o storici, esso
avviene per decreto. Come un sol uomo la società giapponese obbedisce
al volere dell’imperatore, così come è abituata a fare. L’industria,
l’apparato burocratico, la scuola il sistema delle infrastrutture si
adeguano sotto la spinta dell’efficienza del sistema, ma nella società
avviene una frattura, tutta una generazione di individui cresciuti nella
famiglia tradizionale e nelle relazioni sociali improntate sulla tradizione,
si trova proiettata in un sistema scolastico e produttivo con obiettivi e
modelli diversi da quelli precedentemente introiettati.
Il cortocircuito culturale rimarrà a lungo latente, ingabbiato tra le
maglie delle complesse relazioni sociali cui i Giapponesi continuano a
costringersi, ma, in determinate occasioni, emergerà violentemente,
ponendo l’accento sulla differenza tra i valori ancestrali del Giappone e
le necessità della marcia forzata verso la modernizzazione. Kenji
Tokitsu 77 cita a questo titolo, l’esempio di due casi di Seppuku 78
realizzati in era moderna, quello del generale Nogi nel
1912 in
76 Cfr. Ruth Benedict - Il Crisantemo e la spada - Dedalo Milano 1968; Il Giappone aveva
preteso che nell’atto che formalizzava l’asse Roma Tokyo Berlino, venisse inserita
l’affermazione che le tre potenze si impegnavano a far si che ogni nazione trovasse il proprio
posto nella gerarchia delle nazioni del mondo.
77 Kenji Tokitsu - Kata - Oriental Press 2004
78 Il suicidio tradizionale Giapponese codificato in un Kata noto anche come Harakiri,
letteralmente tagliare, kiri il ventre, hara.
63

concomitanza con la morte dell’imperatore Meiji 79 e quello dello
scrittore ed artista Iukio Mishima all’eta di 45 anni nel 1970.
Il Generale Nogi era uno dei massimi vertici dello stato, del
nuovo stato Giapponese moderno che aveva cancellato il feudalesimo e
il vassallaggio e che aveva imposto la fine della disuguaglianza sociale.
Ora Nogi, alla morte del suo imperatore, affermava la propria superiorità
di casta e la propria visione tradizionale eseguendo il Kata del Seppuku,
il Kata fondamentale della casta dei guerrieri, a cui l’educazione
tradizionale educava il bambino fin dalla più tenera età.
Il Seppuku di Mishima invece si svolge in un mondo
profondamente mutato e dopo essere stato più volte annunciato. Nel
1970 si temeva che il rinnovo del trattato di sicurezza Nippo Americano
avrebbe dato luogo, come dieci anni prima a violenti scontri e proteste in
tutto il paese. Mishima approfitta di questo clima per inscenare il più
spettacolare dei suicidi, dopo aver rapito un alto Generale dell’esercito,
costringe le truppe ad ascoltare un suo discorso prima di compiere il
suicidio rituale 80 di fronte al generale stesso. Questo suicidio fu uno
shock per tutta una generazione di studenti.
Tokitsu scrive:
“Per le persone della mia generazione, che
cercavano un senso alla vita, il passaggio attraverso Mishima era
inevitabile. La trasformazione brutale dei valori che
Mishima, più vecchio di me di venti anni, aveva
vissuto alla fine della guerra, quando ci si preparava
a morire a vent’anni, noi le sperimentavamo nella
sfasatura tra noi stessi e i nostri genitori.
… Il suo
discorso ci colpiva con il radicalismo dell’azione che
va sempre verso la morte 81 , poiché, nell’esperienza
79 Era normale nel medioevo Giapponese che il vassallo seguisse il proprio signore nella morte
dopo avergliene chiesto il consenso, al punto che quando questo non avveniva il vassallo veniva
fatto oggetto del più profondo disprezzo.
80 Anche il vice comandante della milizia privata di Mishima lo seguirà allo stesso modo nella
morte.
81 Mishima era ossessionato dall’Hagakure, il “codice d’onore” dei samurai: “Ho scoperto che la
via del Samurai è la morte. Quando sovviene una crisi, davanti al dilemma tra vita e morte è
necessario scegliere subito la seconda … L’essenza del Bushido è prepararsi alla morte, mattina
e sera, in ogni momento della giornata. Quando un Samurai è sempre pronto a morire,
64

della mia generazione, il luogo della morte e quello dell’azione erano
opposti. Dopo la guerra l’educazione si era
messa a sostenere il contrario di quella
precedente, e noi sentivamo una sfasatura tra i
valori che trasparivano dai nostri genitori e quelli
che ci venivano insegnati”.
Nel Karate, i Kata vengono studiati in
gruppo ed eseguiti in contemporanea con tutti gli altri praticanti, in certi
momenti uno degli aspetti fondamentali diviene la sincronia del gruppo,
la capacità di percepire contemporaneamente il ritmo e il movimento
degli altri, alla ricerca di una fusione anche di tipo spirituale. In effetti
alcuni aspetti della pratica 82 tendono a far si che il livello della
comunicazione analogica e della percezione dell’altro si affinino
notevolmente e dopo poco, il livello di coesione del gruppo dei praticanti
diviene notevole. Spesso si può notare come il rapporto tra i praticanti
sia improntato a franchezza e cordialità. Può sembrare strano che in una
disciplina dove si insegna il combattimento si ottenga un effetto di
questo genere ma ci sono alcuni aspetti che vanno presi in
considerazione. In primo luogo la pratica del combattimento viene
condotta a viso aperto e nella certezza delle intenzioni dell’altro, Uke e
Tori 83 non vivono un conflitto ma una pratica di accrescimento comune,
colui che attacca lo fa con la massima sincerità e determinazione, nella
consapevolezza che chi si difende possa in quel modo prepararsi a
fronteggiare attacchi portati con violenza da un avversario che abbia
intenzione di ferirlo. Il difensore allora, oltre che migliorare la propria
tecnica attraverso la ripetizione del movimento, apprende anche a reagire
con la giusta dose di forza e senza l’aggressività che di solito viene
scatenata dalla paura.
padroneggia la Via” [Hagakure I,2] cfr Yamamoto Tsunetomo “ Hagakure ” Mondatori Milano
2004
82 Particolarmente alcuni aspetti del Kumite, il combattimento ritualizzato che si esegue durante
gli allenamenti e nel quale ai praticanti si chiede di guardarsi negli occhi senza mai distogliere lo
sguardo
83 Colui che attacca e colui che si difende o, più precisamente, colui che subisce la tecnica (tori) e
colui che la applica (uke)
65

In questo modo, assieme, si imparano e si perfezionano le
tecniche di lotta e la padronanza di se, ma scatta anche una
comprensione più profonda della natura dell’altro, una compassione.
Quando poi si pratica il Kata in gruppo, la ricerca del ritmo comune si
può immaginare non solo come la ricerca della sincronia dei movimenti
ma come la ricerca di una maniera comune di affrontare la complessità
della vita e la difficoltà di gestire i rapporti umani. Imparando a
fronteggiare l’altro con compassione si impara ad affrontare se stessi e la
propria tendenza alla aggressività e alla scompostezza di fronte a
situazioni ambigue o ad ambiti sociali non strettamente codificati.
Eseguendo lo stesso Kata allo stesso momento degli altri, confermo la
mia disponibilità a seguire un determinato modello relazionale,
condiviso dal gruppo dei praticanti, e più in generale da tutti i praticanti
in tutti i tempi. Così, se torniamo alla definizione di Tokitsu, secondo cui
per mantenersi in equilibrio il modello sociale basato sul Kata:
“…
necessita di un gruppo sociale omogeneo in cui la comunicazione è
largamente implicita”, vediamo che è la pratica stessa dell’allenamento
anche attraverso il kata, che contribuisce a creare l’omogeneità nel
gruppo dei praticanti.
66

9 Il Budo
Il termine Budo, viene spesso tradotto in Occidente come
sinonimo di “Arti Marziali” ma l’idea che si ha in Oriente delle arti della
guerra non è la stessa che se ne ha in occidente. A dimostrazione di
questo possiamo citare due classici 84 ,
“Sulla Guerra 85 ” del Barone von
Clausewitz e “L’arte della guerra 86 ” di Sun Tzu. Appare evidente nei due
testi una prima differenza, Clausewitz parla della guerra come battaglia,
egli si trova immerso in una situazione
belligerante, nella creazione della quale non ha
alcuna parte, la sua è una teoria del conflitto
quando questo è ormai giunto sul piano fisico.
Diversa è l’ottica di Sun Tzu,
“Combattere e
vincere cento battaglie non è prova di suprema
eccellenza. La suprema abilità consiste nel piegare la resistenza
(volontà) del nemico senza combattere 87 ”. Insomma la massima virtù
risiede nella capacità di sospendere il conflitto, nell’oggettivare le forze
in campo senza impegnarle.
Questa stessa impostazione la troviamo intrinsecamente legata al
concetto di Budo. La parola Budo in Giapponese è composta dai due
ideogrammi Bu e Do. Conosciamo già il significato di Do, inteso come
via dell’accrescimento spirituale che passa attraverso la perfezione
nell’arte. Soffermiamoci un attimo sull’ideogramma Bu, esso è
composto da due parti distinte, a destra il simbolo della lancia, a
simboleggiare il conflitto, a sinistra la forma a tre tratti orizzontali
paralleli, che si utilizza per indicare la sospensione. Perciò una
traduzione verosimile del termine Budo potrebbe essere:
“La via delle
arti marziali attraverso cui il guerriero apprende a sospendere il
conflitto”.
84 Occorre precisare però che il testo cinese viene fatto risalire a circa 2500 anni fa, mentre il
testo Austriaco è dei primi anni dell’800
85 K. VON CLAUSEWITZ “ Della guerra” Mondadori, Milano 1970
86 Sun Tzu “L’arte della guerra” Guida, Napoli 1988
87 Cfr. [III, 2] Sun Tzu “L’arte della guerra” Guida, Napoli 1988
67

In effetti, il Budo come lo intendiamo oggi nasce dopo la
pacificazione ottenuta nell’era Tokugawa, quando Il Giappone si pone il
problema di
“ricondizionare” decine di migliaia di
guerrieri, pronti a morire ad una sola parola del
proprio signore. Prima di allora è più giusto parlare
di Bujutsu ovvero di tecniche di guerra, che hanno il
fine di preparare un guerriero ad uccidere in maniera veloce ed
efficiente. Il passaggio ad un etica di pace è anche accompagnato ad uno
spostamento dai valori di consapevolezza della transitorietà, espressi dal
Buddismo Zen, a quelli di fondamentalità della regola, espressi dal
Confucianesimo 88 .
Per essere precisi occorre dire che Budo non è un luogo, ne un
elenco di discipline 89 , Budo è uno stato cui si perviene quando la propria
pratica delle arti marziali raggiunge una certa qualità. Scrive Tokitsu:
“Quando, in questo lasso di tempo che è la vita, si associa alla pratica
delle arti marziali, una tensione verso il miglioramento di se stessi, cioè
della persona nella sua totalità, nasce l’idea di Budo, quale che sia la
propria cultura di origine
… Il Budo non costituisce dunque un genere
tra le discipline del combattimento, ma consiste nel modo in cui vi
impegnate in una disciplina dell’arte del combattimento, ricercando
l’efficacia 90 “.
Sempre secondo Tokitsu, la tensione verso la realizzazione del sé
non è un concetto astratto ma poggia su di una concreta sensazione
corporea comune a tutti gli esseri umani. Questa sensazione corrisponde
alla nozione di Ki:
“una certezza interiore, estremamente difficile da
spiegare con le parole, ma comunicabile con il corpo 91 ”.
88 Cfr. G.L. Buffo “ Aikido, una via dello spirito ” Xenia, Milano 1998
89 Anche se molto spesso è ridotto a somma delle discipline che portano il suffisso Do.
90 Cfr. K. Tokitsu “ Il Ki e il senso del combattimento ” Oriental Press, Milano 2002
91 Cfr. K. Tokitsu “ Il Ki e il senso del combattimento ” Oriental Press, Milano 2002
68

Il Ki
A complicare una spiegazione del concetto relativo alla parola Ki
è persino l’ideogramma che viene utilizzato per indicarla. La struttura di
questo ideogramma è rappresentata da tre concetti correlati. Il primo,
nella parte inferiore, composto da una riga verticale
traversata da tratti orizzontali, raffigura una sostanza
eterea, sottile o intangibile, mobile ed indefinita 92 . La
parte mediana rappresenta qualcosa che chiude e
nasconde, i tre tratti della parte superiore indicano il
concetto di non dire e di frenare il dire. Il senso generala di questo
ideogramma è quindi “Energia nascosta di cui non si può dire con le
parole 93 ”. In India corrisponde al Prana, in occidente è stato spesso
tradotto come Pneuma, nell’accezione greca di “soffio vitale”.
Nella lingua Giapponese sono numerose le espressioni che
utilizzano la parola Ki, in molte altre essa viene presupposta. Negli
scritti di epoca medioevale, soprattutto, questo concetto viene utilizzato
come Medium espressivo per intendere l’esperienza implicita nel proprio
vissuto 94 . Tokitsu scrive:
“Attraverso la sensazione del Ki, i Giapponesi
sembrano aver captato dei fenomeni naturali senza cercare di spiegarli.
Non hanno escluso dal campo del linguaggio le sensazioni più vaghe. …
Quando hanno avuto la necessità di verbalizzare il mediatore, il medium,
che corrispondeva a certe sensazioni vaghe, i Giapponesi hanno
utilizzato la parola Ki. Di conseguenza, la sensazione del Ki sembra
situarsi più in profondità e più arcaicamente, di quelle che sono divenute
oggetti di sapere. Una delle particolarità della cultura e della società
Giapponese sembra essere quella di aver dato un posto importante a
questo tipo di percezione, pur sviluppando una logica moderna. 95
Sempre secondo Tokitsu, quello del Ki è un fenomeno
interculturale, una peculiarità della razza umana la cui interpretazione e
92 Cfr. G.L. Buffo “Aikido, una via dello spirito” Xenia, Milano 1998
93 Cfr. G.L. Buffo “Aikido, una via dello spirito” Xenia, Milano 1998
94 Cfr. K. Tokitsu “ Il Ki e il senso del combattimento ” Oriental Press, Milano 2002
95 Cfr. K. Tokitsu “ Il Ki e il senso del combattimento ” Oriental Press, Milano 2002
69

percezione si diversifica a seconda delle culture. In particolare lo
sviluppo in senso logico delle lingue e delle culture occidentali hanno
posto sempre più in profondità ed in secondo piano la sensibilità per
questo fenomeno. Per percepire il Ki, occorre mettere in secondo piano
il proprio Io davanti a ciò che ci circonda. Aiuterà a questo scopo
ricordare che nella lingua Giapponese non esisteva, prima dei contatti
con l’occidente, un termine per esprimere il concetto di natura, essendo
l’uomo Giapponese inserito in un contesto in cui si percepiva un tutt’uno
con la natura stessa.
Anche il concetto del Ki, come quasi tutti gli aspetti culturali del
Giappone classico è un concetto che arriva dalla Cina, dove è conosciuto
come Qi ed è scritto con lo stesso ideogramma usato dai Giapponesi per
Ki. Le discipline utilizzate per sviluppare la propria sensibilità al Ki
sono simili in Cina, dove prendono il nome di Qi Gong 96 e in Giappone,
dove sono chiamate Kiko. Non a caso Taoisti e Buddisti ricercano uno
stato mentale distaccato dal sistema delle parole, essi cercano di captare
l’essenza delle cose, senza costringerla in un concetto statico. Essi
rifiutano di esprimere un sentimento con un nome, perché in questo
modo esso entrerebbe a far parte della concezione duale, che dimentica,
ad esempio con la concettualizzazione della parola amore, dell’odio, che
è parte integrante di questo. Distruggendo così il perfetto equilibrio
insito nella natura del Tao 97 .
Come approcciare in un ottica occidentale e scientifica un
concetto di questo tipo, per sua stessa natura e definizione avulso dalle
regole, e dalle concettualizzazioni che normalmente sorreggono le nostre
ipotesi?
Il concetto di Ki potrebbe di diritto iscriversi ad essere analizzato
dalla Metafisica, almeno nella concezione che, all’inizio del novecento,
le viene data da H. Bergson 98 . Se invece desideriamo (e lo desideriamo)
96 In Italiano tradotto con “Ci Kung”, all’incirca “lavoro lungo, energico e difficile sul Ci”
97 Che rappresenta il perfetto equilibrio insito nella natura non duale delle cose.
98 Egli individua infatti come organo della Metafisica, l’intuizione, la quale permetterebbe di
cogliere l’interiorità e l’essenza del reale, cioè la vita e lo spirito, di contro all’intelletto, organo
70

restare nell’ottica scientifica, un Aiuto notevole ci viene dagli studi del
1968 sulla lateralizzazione del cervello umano, che hanno valso il
premio Nobel per la medicina nel 1981 allo scienziato Americano Roger
W. Sperry.
Sperry scopre, nei suoi studi, che il cervello umano ha due
diverse modalità di pensiero, una verbale, analitica e consequenziale,
riferita all’emisfero sinistro, un'altra visiva, percettiva e globale, con
sede nell’emisfero destro. Viene spontaneo considerare, senza alcuna
pretesa di generalizzazione, che forse il pensiero Occidentale ha
contribuito a predisporre la mente ad una prevalenza dell’emisfero
sinistro sul destro e viceversa in Oriente.
Non sono a conoscenza di discipline per lo sviluppo della
sensibilità al Ki di derivazione Occidentale, pure, posso portare un
esempio secondo me calzante. Alla fine degli anni settanta, un artista
americana insegnante di disegno, Betty Edwards, dopo aver scoperto gli
studi di Sperry sulla lateralizzazione, inventa un metodo 99 basato su
tecniche realizzate per ingannare le funzioni peculiari dell’emisfero
sinistro e facilitare così l’apprendimento del disegno attraverso la
funzionalità del destro. Il metodo risulta straordinariamente efficace e il
libro 100 che lo descrive, diviene un Best Sellers, tradotto in tutto il
mondo.
La Edwards, intuisce che le funzioni della parte destra del
cervello sono quelle primarie per la produzione artistica. L’istintività, la
confusione col tutto, la perdita del senso del tempo. In definitiva,
l’essere sensibili al Ki. Non si può non pensare alle parole di Suzuki, già
citate in questa tesi: “quello stato in cui non vi è la minima frattura, non
vi è lo spessore di un capello, tra la volontà di un individuo e la sua
azione …”. Ed ecco che si torna alle arti marziali, dove la parola Arte,
anteposta a marziale, acquisisce ora un diverso significato e un altro
spessore concettuale.
delle scienze, che si limita a ciò che è spaziale e continuo Cfr.
Enciclopedia Garzanti di
Filosofia” Garzanti,Milano 1993
99 Metodo apprezzato ed appoggiato dallo stesso Sperry.
100 B. Edwards “ Disegnare con la parte destra del cervello ” Longanesi, Milano 2002
71

“Non Colpire per vincere ma colpisci dopo avere vinto”. Questa
frase, che i maestri di arti marziali ripetono da sempre ai loro allievi,
vuole in questo caso significare che la concentrazione dell’adepto deve
essere totale e pronta a percepire un momento di rottura in quella
dell’avversario. Avendo percepito un incrinazione nella concentrazione,
o se vogliamo, nel Ki dell’avversario, o meglio ancora, se
metaforicamente, lo scorgiamo con i piedi fuori dalla via
(Do), allora
possiamo colpire, avendo già vinto 101 . Ma la concentrazione da mettere
in ballo, è quella corrispondente alle prerogative dell’emisfero destro, la
capacità di astrarsi dal proprio Io e confondersi con la totalità, per
cogliere la minima modificazione dell’ambiente circostante, ambiente
che a questo punto contiene noi e il nostro avversario in maniera
inscindibile. Questa concentrazione verso il Ki, che in termini
occidentali potrebbe essere più concretamente chiamata distrazione dal
sé, è probabilmente quello che si intende quando si dice
“essere nella
via”. Una poesia del famoso spadaccino Miamoto Musashi, del quale
abbiamo già detto che pervenne alla realizzazione in tutte le arti
perseverando nell’arte della spada fino ad ottenere la via, disegna
perfettamente lo stato dell’anima del combattente:
La corrente del fiume invernale
Riflette la luna
Sull’acqua trasparente come uno specchio 102
L’Hara
La cultura orientale non divide, o meglio non differenzia,
l'energia fisica da quella mentale e psichica: l'energia è unica, mente e
corpo rappresentano un unico fenomeno che, coordinato, permette una
vita equilibrata. Il luogo in cui avviene questa coordinazione è
101 Un combattimento di questo livello si può avere tra maestri, non tra semplici praticanti, come
ad esempio sono io.
102 La poesia in questione era probabilmente un Haiku, ovvero una composizione nel metro
tradizionale di 5, 7, 5 ma la traduzione non ha evidentemente potuto essere rispettosa del metro.
72

individuato nell'Hara: esso è di fatto il "centro" di ogni individuo, a cui
tutte le culture attribuiscono grande importanza. Per quanto riguarda la
nostra cultura, basti pensare alla celebre figura dell’uomo di Leonardo
da Vinci.
Se accettiamo la raffigurazione di questo "centro" come
ricettacolo dell'energia, si comprende come la pratica nel Dojo consideri
sempre come indispensabile ed irrinunciabile far partire da questo
"punto" movimenti ed azioni.
In termini occidentali si può parlare di "baricentro" e di quanto
sia importante essere consapevoli della sua esistenza nel momento di
eseguire le tecniche, allo scopo di conservare l’ equilibrio fisico e
mentale a discapito di quello dell'avversario. L’idea di baricentro però è
statica, invece nella concezione orientale dall’Hara parte e si irradia
l’energia, il Ki. Un altra immagine dell’importanza dell’Hara l’ho
trovata leggendo un intervista ad un noto maestro di Capoeira 103
Brasiliano, Djamir Pinatti, in un accezione culturale dunque, ne orientale
ne interamente occidentale. Alla domanda 104 - Perché durante il Jogo 105
la musica è imprescindibile? Il Maestro Pinatti risponde: “Il fatto che la
Roda sia avvolta dalla musica e dal canto ne rafforza il senso del rituale
all’interno di un percorso di iniziazione, di crescita personale, di sintonia
con le forze del cosmo, di autoconsapevolezza. In questo senso lo spazio
della Roda 106 è un luogo sacro e, soprattutto con la Capoeira
tradizionale, Angola, che è più lenta, si ottiene di spezzare le tensioni
soggettive mediante il rallentamento del movimento, di favorire una
sorta di trascendenza, di elevazione spirituale. La circolarità, la musica,
la fluidità, inducono il praticante in uno stato di superiore attenzione nel
quale aumenta la capacità di percepire il proprio sé. Lo strumento a
corda di accompagnamento, il Berimbau, si appoggia con la cassa di
103 Arte marziale nata in brasile tra gli schiavi delle piantagioni e sincretizzata in danza per
nasconderne la pratica ai sorveglianti.
104 Il Manifesto, sabato
11 giugno 2005, pag.
16 “ Arte, sport e ribellione, il gioco della
Capoeira ” di Marco Perisse.
105 L’allenamento alla Capoeira è detto Jogo.
106 Roda è il cerchio dei praticanti dentro al quale si svolge il combattimento della Capoeira.
73

risonanza sotto lo stomaco, dove gli orientali collocano il Chakra del
basso ventre, lo Hara, fonte dell’energia …”
Il successo delle discipline interiori e l’approccio scientifico
Le arti marziali sono state considerate a lungo in occidente alla
stregua delle discipline sportive, l’aspetto esteriore dell’arte ha a lungo
prevalso su quello interiore. Dopo mezzo secolo si può dire che
l’approccio si sta invertendo 107 . Con grande fatica e molto sospetto si
comincia a familiarizzare con concetti come quelli di Ki o Hara e con
discipline come la meditazione, tanto comuni ed accettate in oriente
quanto ostiche per la mentalità scientifica e razionalista.
La prima delle scienze occidentali a percorrere le strade scivolose
del sapere tradizionale orientale è la psicologia 108 , e il primo pioniere in
questo senso è certo C. G. Jung. Egli dedicò approfonditi studi alle
culture e alle religioni orientali e trovò numerose analogie tra quelle e la
sua
“Psicologia Analitica” 109 . Jung nel
1949 scrisse anche una famosa
prefazione all’edizione inglese de
“I Ching 110 ”, il libro del sapere
Taoista, noto anche come “il libro dei mutamenti”, tradotto dal famoso
sinologo Richard Wilhelm, del quale era amico personale. In questa
introduzione, celebre quasi quanto il libro stesso, Jung descrive
sommariamente le differenze che intercorrono tra mentalità Orientale ed
Occidentale, poi, nella parte più corposa di essa, chiede al libro stesso
cosa egli pensi della sua introduzione, e cosa egli pensi del fatto che i
107 Uno studio di Michel Calmet dell’Università di Montpellier, presentato al 3° International
symposium on traditional, Karate, Budo, Arts and combat Sports. Milano 7-8 May 2005, mette a
confronto le pubblicazioni relative a tre arti marziali: Tai Ci, Karate e Judo. Calmet osserva che il
maggior interesse è suscitato dal Tai Chi, l’unica disciplina completamente non competitiva e
dichiaratamente dedicata allo sviluppo interiore, al quale è dedicato circa il
50% delle
pubblicazioni.
108 Oltre che le scienze però a certi aspetti della cultura orientale si era interessata la politica, è
noto l’interesse del nazismo per il Buddismo Tibetano, dal quale venne mutuata la svastica,
simbolo del Sole, che fu però invertita graficamente. E’ anche noto l’interesse per lo Zen
Giapponese di un ideologo del razzismo come Julius Evola, che tradusse dall’inglese “ Saggi sul
buddismo zen ” di D. T. Suzuki.
109 Psicologia e religione, 1940 - Psicologia ed alchimia, 1944
110 R. Wilhelm a cura di “ I Ching ” Adelphi, Milano 1995
74

loro nomi vengano legati 111 . Tralasciando le risposte del libro che, pure
se interessanti, non sono significative per questa trattazione, vorrei però
riportare alcune delle frasi relative alla prima parte dell’introduzione:
“… è curioso che un popolo dotato e intelligente come i cinesi non abbia
mai prodotto ciò che noi chiamiamo scienza. La nostra scienza però si
basa sul principio di causalità, e la causalità è considerata verità
assiomatica. Ma un grande cambiamento è ormai avviato. Ciò che la
critica della ragion pura di Kant non ha potuto fare, lo sta facendo la
fisica moderna. Gli assiomi della causalità sono scossi nelle loro
fondamenta: ora sappiamo che quelle che noi chiamiamo leggi di natura
non sono altro che verità statistiche, costrette perciò ad ammettere delle
eccezioni … La mentalità cinese, quale io la vedo all’opera nell’I Ching,
sembra preoccuparsi esclusivamente dell’aspetto accidentale degli
eventi. Ciò che noi chiamiamo coincidenza sembra essere la cosa della
quale questa peculiare mentalità 112 s’interessa principalmente, mentre
ciò che noi adoriamo come causalità, passa quasi inosservato … Mentre
la mentalità occidentale pone ogni cura nel vagliare, pesare, scegliere,
classificare, isolare, l’immagine che il cinese si fa del momento,
racchiude ogni cosa fino al più minuto e assurdo particolare, perché
l’istante osservato è il totale di tutti gli ingredienti … L’antica mentalità
cinese contempla il cosmo in una maniera paragonabile a quella del
fisico moderno, il quale non può negare che il suo modello del mondo
sia una struttura decisamente psicofisica. L’evento microfisico include
l’osservatore esattamente come la realtà che forma il sostrato dell’I
Ching abbraccia le concezioni soggettive, ovvero psichiche, nella totalità
della situazione momentanea. Come la causalità descrive la sequenza
degli eventi, così per la mentalità Cinese la sincronicità considera la loro
coincidenza.” Jung non prende parte, egli osserva che l’ I Ching può
presentare qualche interesse per chi ami guardare il mondo dall’angolo
visuale da cui lo considerava l’antica Cina.
111 L’”I Ching” infatti è un libro utilizzato per realizzare divinazioni, un oracolo, potremmo dire.
112 Più avanti la chiamerà “sincronicità” in opposizione alla “causalità” madrina del pensiero
occidentale.
75

Circa trenta anni dopo è il turno di un fisico, Fritjof Capra di
cercare di dimostrare la possibile armonia tra lo spirito della saggezza
orientale e le concezioni più recenti della scienza occidentale 113 . Ma la
testa di ponte che fa si che un numero sempre maggiore di persone si
interessi all’Oriente è il successo di alcune pratiche della medicina
tradizionale Cinese, come l’agopuntura o la riflessologia, che dal
secondo dopoguerra in poi vengono sempre più utilizzate in tutti i paesi
occidentali, queste discipline porteranno un numero sempre maggiore di
persone a dedicarsi all’approfondimento dei temi culturali connessi, e
dunque alla conoscenza sempre più profonda dalla concezione culturale
Orientale.
In tempi recenti ricerche psico sociali come quelle dello
psicologo Daniel Goleman sulla meccanica delle emozioni 114 , studi di
medicina, come quelli del medico Jon Kabat-zin 115 sulle implicazioni
terapeutiche delle pratiche meditative, hanno aperto la strada a tutta una
serie di utilizzi pratici delle conoscenze orientali per agevolare la vita
nella nostra società, che vede un numero sempre maggiore di individui
border line.
Oggi le arti marziali vengono a volte consigliate dagli psicologi,
come percorso di guarigione per gli adulti 116 , o come percorso di crescita
psico fisica per bambini ed adolescenti. I motivi, che potrebbero
sembrare ovvi, appartengono ad una realtà dai contorni complessi e
sfumati. La pratica delle arti marziali potrebbe sottendere aspetti
sublimatori e ritualizzati dell’aggressività, di possibile significato
terapeutico. Inoltre nell’area delle differenze di genere la pratica
potrebbe essere vissuta come conferma di genere per gli uomini o come
113 F. Capra “ Il Tao della Fisica ” Adelphi, Milano 1989
114 D. Goleman “Intelligenza emotiva” Bur, Milano 2002
115 Direttore della clinica per la riduzione dello stress dell’università del Massachussets.
116 Uno tra tanti il notissimo psichiatra Giorgio Nardone, collaboratore di P. Watzlawick e co-
fondatore della “Psicologia breve o strategica”. Cfr G. Nardone “ Cavalcare la propria tigre
Ponte alle grazie, Milano 2003
76

ricerca di mascolinizzazione per le donne 117 . Il tutto al di la e al di fuori
della pratica agonistica.
Il Karate, e le arti marziali in genere, possono inoltre dare un
grosso contributo alla rottura degli schemi introiettati di produzione di
stress, ansia e panico. Su questo vorrei dare qualche spiegazione.
Di fronte ad una minaccia fisica o psicologica, il nostro essere
instaura una particolare reazione, proporzionata a quanto percepiamo
pericoloso l’evento. Di fronte ad una minaccia di notevole carica
emotiva, l’organismo mette in moto una reazione di allarme per
preparare una rapida azione difensiva o offensiva, quello che i fisiologi
chiamano “fight or flight reaction” 118 . Quasi istantaneamente si produce
una sovreccitazione caratterizzata da forti tensioni muscolari ed
emozioni intense, tramite segnali nervosi e liberazione di ormoni dello
stress quali soprattutto l’epinefrina 119 . Tutto ciò avviene tramite
l’attivazione di un particolare ramo del sistema nervoso autonomo: Il
sistema simpatico, che ha la funzione di accelerare i processi interni del
corpo, mentre il parasimpatico serve a rallentarli. L’Ipotalamo, regione
del sistema libico del nostro cervello 120 , è l’interruttore che controlla i
due rami, ed è collegato anche al sistema endocrino e muscolo
scheletrico. Senza entrare in ulteriori dettagli, si vede già come il nostro
organismo, come struttura psico fisica, si predisponga alla massima
efficienza di fronte a situazioni di difficoltà. Il problema nasce dal fatto
che, per un animale questo sistema è certamente funzionale e la coppia
di possibilità attacco o fuga è sufficiente per garantirgli la
sopravvivenza, invece, per un animale dal comportamento sociale
complesso come è quello dell’uomo, questo schema è quasi sempre
eccessivo. Non è affatto male disporre di questa capacità fondamentale
di difesa, ma i problemi nascono quando si perde la capacità di
117 Cfr. “Il Karate: Aspetti personologici e fantasie correlate. Considerazioni a margine di rilievi
psicometrici e clinici” Relazione di un gruppo di lavoro della clinica psichiatrica dell’ Università
degli studi di Genova, presentata al 3° International Symposium on traditional Karate, budo arts
and combat sports, Milano 7-8 Maggio 2005
118 Combatti o scappa
119 Conosciuta meglio come Adrenalina.
120 Descritto in letteratura come centro delle emozioni, situato profondamente dentro il cervello.
77

servirsene costruttivamente e questa agisce in noi in modo incontrollato.
La reazione di fight or flight si scatena in noi ogni volta che ci sentiamo
minacciati, ma, quasi mai, è in gioco la nostra vita 121 . Di fronte ad un
evento particolarmente stressante
(come ad esempio la discussione di
una tesi di laurea) le strategie di combatti o scappa messe in gioco dal
nostro sistema libico sono assolutamente inadeguate, la lotta va in questo
caso sublimata sul piano intellettuale ma è chiaro che non si è certo
facilitati dai meccanismi sopra descritti. Quando la sovreccitazione
caratteristica della reazione di stress diventa un modo di vita, la qualità
della vita si abbassa notevolmente, la cronicizzazione della reazione di
stress incontrollata può avere gravi conseguenze per la salute fisica e
psicologica 122 .
Le arti marziali, con la loro continua ricerca della consapevolezza
di sé e della giusta reazione di fronte agli stimoli esterni, possono
favorire la capacità di instaurare una risposta non inconsapevole, e
perciò adeguata, con grande risparmio di energie nervose e fisiche. In
generale tutte le discipline che mettono al centro la consapevolezza,
siano esse Yoga, pratiche meditative o altro, possono portare benefici di
questo genere, la peculiarità delle arti marziali è che esse portano anche
a conoscere e soprattutto a testare la propria forza fisica e psichica, cosa
che può portare un notevole aiuto al momento in cui la si debba
utilizzare.
Cinema e arti marziali
A metà degli anni 50 il Karate è arrivato in Occidente, la lunga
strada che ha percorso per arrivare a noi, si è oggi molto accorciata. A
metà degli anni settanta il grande successo dei film d’azione di Bruce
121 Questo stesso schema è colpevole della formazione degli attacchi di ansia o di panico.
122 Per tutto questo paragrafo Cfr. Jon Kabatt-Zinn “ Vivere momento per momento ” Corbaccio,
Milano 2005
78

Lee ha fatto si che tutte le palestre si riempissero di corsi di Karate 123 .
Negli ultimi anni, il cinema, ha visto l’enorme successo dei film
cosiddetti di “cappa e spada” cinesi, in cui la violenza, (in primo piano e
molto esplicita nei film degli anni
‘70) lascia il posto a una visione
fortemente estetizzante del combattimento e dell’addestramento
marziale 124 .
Ma a rilanciare nell’immaginario collettivo le arti marziali è stata
probabilmente la trilogia di
“Matrix” storia scritta da uno sceneggiatore
visionario e geniale, che mescola visioni buddiste e taoiste alla pratica
delle arti marziali, in un universo basato sulla programmazione
informatica, dove è impossibile distinguere tra mondi virtuali e mondi
concreti, con visioni filosofiche intelligenti ed inquietanti.
Per finire
Il Karate è a tutt’oggi la disciplina marziale più praticata in
occidente, non ostante stia riscontrando un calo di presenze in favore di
altre arti. Questa arte marziale ha colpito la fantasia di tanti. Inizialmente
la maggior parte delle persone vi si sono probabilmente avvicinate per
divenire forti, ma chi aveva questo unico scopo ha potuto apprendere
solo uno stile di lotta. Chi ha scorto, dietro alla facciata, l’esistenza di
una disciplina, di una cultura, di una filosofia, e di un modo altro di
concepire se stessi e il mondo, ha messo in gioco sé stesso per
comprendere, imparare, diffondere, un arte, che è prima di tutto uno stile
di vita 125 .
123 Bruce Lee non praticava Karate ma una variante di Kung Fu studiata da lui stesso, il Jet Kune
Do, d’altra parte negli anni settanta, in Italia almeno, l’unica possibilità di praticare arti marziali
di percussione era il Karate.
124 Per citare i più famosi degli ultimi anni: “La tigre e il dragone” “Hero” “La foresta dei pugnali
volanti” alcuni dei quali sono stati diretti da grandi maestri del cinema, come Zang Jimou.
Oppure il Giapponese
“Zatoichi” diretto e interpretato da Takeshi Kitano, più crudo ma
altrettanto curato.
125 Ho fatto questa riflessione appena appreso, proprio durante la redazione di questa tesi, che il
mio Maestro, Augusto Versari, è stato insignito del quinto Dan, il massimo grado nel Karate stile
Shotokai, che viene concessa non più ormai per merito tecnico, ma quando il maestro, dimostra
di aver dedicato la sua vita alla diffusione del Karate do.
79

Bibliografia
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Kata, forme tecniche e divenire della cultura
Giapponese ” Oriental Press, Milano 2004
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Shigeru Egami “ La via del Karate, passi su una via vivente ” Oriental
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80

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A cura di R. Whilhelm, prefazione di C.G. Jung “ I Ching, il libro dei
mutamenti ” Adelphi, Milano 1995
Mumon “ La porta senza porta ” Adelphi, Milano 1987
Anonimo “ I 36 Stratagemmi ” Edizioni il punto d’incontro, Vicenza 2003
Yamamoto Tsunetomo “ Hagakure ” Mondadori, Milano 2002
Miyamoto Musashi “ Il Libro dei cinque anelli ” Mondadori, Milano 1998
Buddha “ Aforismi e discorsi ” Newton Compton, Roma 1994
Sun Tzu “ L’arte della Guerra ” Guida, Napoli 1991
Cultura Giapponese
Ruth Benedict
Il Crisantemo e la Spada, modelli di cultura
Giapponese ” Dedalo, Bari 1968
L. Frederic “ Vita quotidiana in Giappone ai tempi dei Samurai ” Bur,
Milano 1987
Akira Kurosawa “ L’ultimo Samurai ” Baldini&Castoldi, Milano 1995
Angela Terzani Staude “ Giorni Giapponesi ” Tea, Milano 1997
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Fritjof Capra “ Il Tao della Fisica ” Adelphi, Milano 1989
Betty Edwards “ il nuovo Disegnare con la parte destra del cervello
Longanesi, Milano 2002
Jon Kabat-Zinn
Vivere Momento per momento ” Corbaccio, Milano
2005
Jon Kabat-Zinn “ Dovunque tu vada ci sei già ” Tea, Milano 1999
81

Daniel Goleman “ Intelligenza emotiva ” Bur, Milano 1999
Giorgio Nardone “ Cavalcare la propria tigre ” Ponte alle grazie, Firenze
2003
G. Nardone, P. Watzlawick “ L’arte del cambiamento ” Ponte alle grazie,
Firenze 1990
Julian Jaines
Il crollo della mente bicamerale e l’origine della
coscienza ” Adelphi, Milano 1996
Periodici
Arti d’Oriente, bimestrale di culture e tradizioni orientali ” Oriental
Press, Milano annate 2003, 2004, 2005
Siti tematici sul Web:
www.shotokai.net
www.karate-do-shotokai.org
www.scuolainteriore.it
www.meditare.it
www.vertici.com
www.cooperweb.it
www.fikta.it
www.irimi.it
Testi non pubblicati:
Marco Forti “ Shotokai no Rekishi, excursus sulla storia del Karate do
del Maestro Shigeru Egami ”, reperibile dalla sezione Download del sito
dell’associazione Shotokai Italia, www.shotokai.net , 2003
Keinosuke Kinoshita “ Egami Karate do, Nippon Karate do Yutenkai
distribuito su richiesta dall’associazione Shotokai Italia, 2000
82

Atti di convegni:
1° International Symposium on Traditional Karate and Budo Arts,
Bologna 15 October 2000
2° International Symposium on Traditional Karate, Budo Arts and
Combat Sports, Milano 9-10 November 2002
3° International Symposium on Traditional Karate, Budo Arts and
Combat Sports, Milano 7-8 May 2005
“International Shotokai meeting”, svoltosi ad Almada, Portogallo,
ottobre 2003
83

ALLEGATO A:
I CIRCUITI NEURALI DELLA PAURA 126
Tratto da”Intelligenza Emotiva” di D. Goleman
L'amigdala ha una funzione centrale per la paura. Quando una
rara malattia cerebrale distrusse l'amigdala di S.M.
(senza però
danneggiare le altre strutture cerebrali), la paura scomparve dal suo
repertorio mentale. La donna diventò incapace di identificare le
espressioni di paura sul volto degli altri e di esprimere paura
personalmente. Come afferma il suo neurologo,
«se qualcuno puntasse
una pistola alla tempia di S.M., lei sarebbe conscia intellettualmente di
aver paura, ma non si sentirebbe impaurita come lo saremmo io, lei e
chiunque altro».
I neuroscienziati hanno esplorato i circuiti della paura nelle loro
più sottili diramazioni, benché allo stato attuale delle ricerche non siano
stati studiati con completezza i circuiti di alcuna emozione. La paura è
un caso che si presta assai bene per comprendere la dinamica neurale
delle emozioni. Nel processo evolutivo la paura riveste un'importanza
particolare, perché più di ogni altra emozione ha rilievo per la
sopravvivenza. Ovviamente nei tempi odierni le paure in-giustificate
sono la rovina della vita quotidiana e ci procurano sofferenze dovute a
una grande varietà di preoccupazioni, all'angoscia e, in casi patologici,
agli attacchi di panico, alle fobie o al disturbo ossessivo compulsivo.
Immaginate di essere soli a casa di notte e di stare leggendo un
libro, quando all'improvviso sentite un rumore in un'altra stanza. Ciò che
accade nel vostro cervello nei momenti successivi ci fa capire come
funzionano i circuiti neurali della paura e quale sia il ruolo dell'amigdala
come sistema di allarme. Il primo circuito cerebrale coinvolto si limita a
ricevere il suono nella sua natura fisica ondulatoria e lo trasforma nel
linguaggio del cervello per mettervi in allarme. Questo circuito va
dall'orecchio al tronco encefalico e poi al talamo. Di lì si dipartono due
vie nervose: una diramazione più piccola conduce all'amigdala e al
126 Cfr Daniel Golemann “ Intelligenza Emotiva ” Bur, Milano 2002
84

vicino ippocampo; l'altra, più grande, porta alla corteccia uditiva nel
lobo temporale, dove i suoni vengono classificati e compresi.
L'ippocampo, un magazzino fondamentale per la memoria, rapidamente
raffronta quel
«rumore» ad altri suoni simili già uditi in passato, per
capire se è un suono conosciuto: è un rumore che voi immediatamente
riconoscete? Nel frattempo la corteccia uditiva sta svolgendo un'analisi
più sofisticata del suono per cercare di com-prenderne la fonte: forse il
gatto? Una persiana che il vento manda a sbattere contro la finestra? Un
ladro? La corteccia uditiva formula un messaggio - potrebbe essere il
gatto che ha fatto cadere una lampada dal tavolo, ma potrebbe anche
essere un ladro e lo invia all'amigdala e all'ippocampo, che rapidamente
lo paragonano a ricordi simili.
Se la conclusione è rassicurante (è soltanto la persiana che sbatte
a ogni raffica di vento), allora l'allarme generale non si innalza a un
livello più alto. Ma se siete ancora incerti, un altro circuito fra
l'amigdala, l'ippocampo e la corteccia prefrontale, accresce ulteriormente
l'incertezza e fissa la vostra attenzione, inducendovi a cercare di
identificare la fonte del suono con sempre maggior preoccupazione. Se
da questa ulteriore analisi non si ricava una risposta soddisfacente,
l'amigdala fa scattare un allarme e la sua area centrale attiva l'ipotalamo,
il tronco encefalico e il sistema neurovegetativo.
La meravigliosa architettura dell'amigdala come sistema
d'allarme centralizzato del cervello si rende evidente in questo momento
di apprensione e di ansia subliminale. Nell'amigdala ogni fascio di
neuroni ha diramazioni particolari con recettori predisposti per differenti
neurotrasmettitori, qualcosa di simile a quei sistemi di allarme nei quali
le singole abitazioni sono collegate con operatori pronti a chiamare i
vigili del fuoco, la polizia o un vicino di casa ogni volta che parte un
segnale d'allarme dagli impianti delle varie case.
Diverse partì dell'amigdala ricevono informazioni differenziate.
Al nucleo laterale dell'amigdala pervengono diramazioni dal talamo e
dalle cortecce uditiva e visiva. Gli odori, attraverso il bulbo olfatti-vo,
85

arrivano all'area corticomediale dell'amigdala, mentre i sapori e i segnali
viscerali finiscono nell'area centrale. Questi segnali in arrivo fanno sì
che l'amigdala sia come una sentinella sempre all'erta, che analizza ogni
esperienza sensoriale.
Dall'amigdala si dipartono diramazioni verso ogni area principa-
le del cervello. Dalle aree centrale e mediale un fascio va verso le aree
dell'ipotalamo che secernono l'ormone corticotropo
(Crh), la sostan-za
con la quale l'organismo reagisce alle emergenze, attivando la reazione
di combattimento o fuga attraverso una serie di altri ormoni. L'area
basale dell'amigdala invia diramazioni al corpo striato, collegandosi così
al sistema cerebrale che regola il movimento. E, mediante il vicino
nucleo centrale, l'amigdala invia segnali al sistema neurovegetativo
attraverso il midollo spinale, attivando una vasta serie di reazioni a largo
respiro che riguardano il sistema cardiovascolare, i muscoli e l'intestino.
Dall'area basolaterale dell'amigdala si diramano fasci nervosi verso la
corteccia del cingolo e verso le fibre conosciute come
«il grigio
centrale», struttura che regola la muscolatura scheletrica. Sono queste
cellule che fanno ringhiare il cane o inarcare il gatto per minacciare
l'intruso nel loro territorio. Negli uomini questi stessi circuiti tendono i
muscoli delle corde vocali e creano il tono alto di voce emessa quando si
ha paura.
Un altra via che si diparte dall'amigdala conduce al locus ceru-
leus, nel tronco cerebrale che, a sua volta, produce la noradrenaline la
diffonde nel cervello. L'effetto della noradrenalina è di aumentare la
reattività complessiva delle aree cerebrali che la ricevono, rendendo più
sensibili i circuiti sensoriali. La noradrenalina soffonde la corteccia, il
tronco encefalico e lo stesso sistema limbico, in sostanza mette in
tensione il cervello. Ora, perfino uno scricchiolio consueto in casa può
farvi provare un fremito di paura. Questi mutamenti in gran parte
sfuggono alla consapevolezza, cosicché voi non siete ancora coscienti di
aver paura.
86

Ma appena cominciate davvero a provar paura, cioè quando
l'ansia che è rimasta inconscia penetra nella coscienza, l'amigdala ordina
all'istante una reazione di vasta portata. Essa segnala alle cellule del
tronco encefalico di far assumere ai muscoli del viso un'espressione di
paura, di rendervi nervosi e allarmati, di bloccare i movimenti già in
corso non legati alla reazione, di accelerare il battito cardiaco, e alzare la
pressione sanguigna e rallentare la respirazione
(vi sarete accorti che,
non appena provate paura, improvvisamente trattenete il respiro, ciò che
vi permette di udire più distintamente eventuali altri rumori provocati da
ciò che vi ha impaurito). Questa è solo parte di una serie di cambiamenti,
ampia e ben coordinata che l'amigdala e le aree a essa collegato
organizzano durante quelli che abbiamo definito «sequestri» neurali.
Nel frattempo l'amigdala, insieme all'ippocampo a essa collegato,
ordina alle cellule che inviano i neurotrasmettitori di provocare scariche,
ad esempio, di dopamina, che vi inducono a concentrare l'attenzione
sulla fonte della vostra paura, gli strani rumori che avete udito, e
predispongono i muscoli a reagire di conseguenza. Allo stesso tempo
l'amigdala comunica con le aree sensoriali della visione e dell'attenzione,
facendo in modo che gli occhi cerchino tutto ciò che è rilevante per
l'emergenza. Simultaneamente i sistemi mnemonici corticali vengono
riorganizzati in modo che le conoscenze e i ricordi più pertinenti alla
particolare urgenza emozionale possano essere prontamente rievocati,
avendo la precedenza su altre linee di pensie-ro meno pertinenti.
Una volta che questi segnali sono stati inviati, voi siete in preda
alla paura: diventate consapevoli della caratteristica tensione dello
stomaco e dell'intestino, del cuore che batte più in fretta, della tensione
dei muscoli del collo e delle spalle e del tremito delle membra; il corpo
si immobilizza, mentre vi sforzate di udire altri suoni e correte col
pensiero a identificare possibili pericoli in agguato e i modi per reagire.
L'intera sequenza dalla sorpresa all'incertezza, all'apprensione alla paura
può verificarsi in un secondo circa.
87

(Per maggiori informazioni, vedi Jerome Kagan, Galen's Prophecy, New
York, Basic Books, 1994.)
88

ALLEGATO B
L’INSEGNAMENTO DEL KARATE AI BAMBINI
<< Dagli Atti del primo “International Shotokai meeting”, svoltosi ad
Almada, Portogallo, ottobre 2003 >>
L’insegnamento del Karate-do Shotokai ai bambini
La nostra esperienza ad Almada
Vorrei condividere con voi l’esperienza dell’Associação Shotokai de
Portugal nel campo dell’insegnamento del Karate-do Shotokai ai
bambini.Per prima cosa qualche notizia riguardo al Karate-do Shotokai
per bambini ad Almada (mi concentrerò su quest’area [potete comunque
dare un’occhiata alla distribuzione dei dojo dell’ASP in Portogallo a
questo indirizzo: http://www.cao.pt/shotokai/dojos.htm] perché è la mia
città e di conseguenza ne ho una conoscenza migliore rispetto a qualsiasi
altra area del Paese).
Almada è una città con una popolazione di
160.000 abitanti e
l’insegnamento riguarda circa
180 bambini
(dai
4 ai
14 anni) che
praticano Karate-do Shotokai in
7 dojo sotto la guida di un direttore
tecnico (istruttore capo), 2 istruttori e 5 assistenti. Gli anni di esperienza
nell’insegnamento di questi tre istruttori sono, rispettivamente:
26,
15 e
8 anni.
Quando Murakami Sensei 127 era vivo ed attivo nell’insegnamento, i
bambini sotto i
14 anni rappresentavano una piccola percentuale dei
praticanti, ma nelle ultime decadi le cose sono pian piano cambiate ed
ora, più del 50% dei nostri praticanti hanno un’età inferiore ai 14 anni.
Per questo motivo, nel corso del tempo abbiamo dovuto sviluppare un
tipo speciale di pratica adattata ai più piccoli. È stato un lungo lavoro,
durato più di vent’anni..Nel corso di questo tempo abbiamo fatto molte
ricerche, abbiamo partecipato e organizzato corsi federali e incontri
127 Sensei: Maestro in Giapponese
89

interni nonché altre azioni educative, con la partecipazione di psicologi,
pedagoghi e insegnanti di educazione fisica. Al momento stiamo
selezionando e condensando tutto il materiale raccolto in un
“Manuale
per l’insegnamento del Karate-do Shotokai ai bambini” tascabile
(sfortunatamente questo materiale è presente solo in lingua portoghese,
ma una parte di esso è stato tradotto da bibliografia in inglese e francese;
penso sia possibile adattarlo in altre lingue in futuro qualora qualcuno ne
manifestasse interesse). Nelle classi di Shotokai riservate ai bambini la
varietà delle esperienze è massimizzata. La specializzazione viene
evitata. Usiamo anche qualche tecnica presa da altre Arti Marziali,
specialmente il Judo
(in particolare cadute, proiezioni e prese) e
facciamo naturalmente molti giochi, la maggior parte dei quali sono
giochi tradizionali portoghesi
(questo Paese, probabilmente grazie anche
alle condizioni climatiche eccellenti, ha una grande ricchezza di giochi
all’aria aperta). Al contrario di quello che si potrebbe pensare, la parte
comune nell’insegnamento agli adulti e ai bambini è proprio il
programma tecnico. Usiamo esattamente lo stesso programma tecnico (!)
per tutte le età dai 4 agli 84 anni. Allora, qual è il trucco? L’adattamento
alle esigenze. L’esigenza riguardo alla perfezione tecnica cresce con
l’età, dai 4 ai 14 anni, sempre tenendo in considerazione che lo sviluppo
di un bambino è sempre un fattore individuale e non può essere
completamente standardizzato in base all’età..I gradi ottenuti sono
universali. Voglio dire un
4° Kyu è un
4° Kyu indipendentemente
dall’età e deve essere in grado di eseguire tutte le tecniche richieste per
ottenere quel grado. Imponiamo comunque un’età minima per gli “alti”
gradi: 14 anni per il 2° Kyu, 16 anni per il 1° Kyu e 18 anni per il 1° Dan
(riteniamo che la maggiore età sia necessaria ad una persona per portare
la cintura nera). Così
- vi potreste chiedere
- come facciamo ad
incoraggiare un bambino a continuare la pratica per 10 anni (dai 4 ai 14
anni) con solo 4 passaggi di grado (da 6° a 2° Kyu). Bene, la risposta è
semplice. Per prima cosa non enfatizziamo il passaggio di grado, ma la
pratica in sé. Gli esami sono formali e ci sforziamo di essere giusti
(i
90

bambini tendono ad essere ipersensibili alle ingiustizie) ma non
drammatizziamo..In secondo luogo dividiamo ciascun Kyu in tre livelli
(qualche dojo rende materiali questi passaggi intermedi con strisce
colorate sulle cinture dei bambini, altri no). In questo modo, nel caso
estremo che un bambino inizi ad allenarsi a 4 anni, abbiamo 12 passaggi
da distribuire per un periodo di 10 anni. Posso assicurarvi una cosa: il
sistema funziona molto bene! Nessun bambino che abbia frequentato
diligentemente un anno di pratica resta senza riconoscimenti e,
naturalmente, il riconoscimento è proporzionale allo sforzo e alla tecnica
dimostrata. Ora un altro punto prima di terminare questo piccolo
resoconto:
- Non concordiamo sul fatto che i bambini, per avere uno
sviluppo bilanciato attraverso la pratica del Karate-do Shotokai, debbano
partecipare a competizioni sportive. La nostra esperienza dimostra che
questo è un altro mito. Certo, i piccoli hanno sicuramente bisogno di
giocare e giocare significa fare molte attività ludiche in cui si vince e si
perde. Ma questo non ha nulla a che vedere con la competizione
istituzionalizzata con regolamenti, arbitri, podio e medaglie. Sappiamo
quello che stiamo dicendo perché alcuni di noi hanno provato in passato
a fare questo tipo di competizione con i bambini. Qualcuno di noi
pensava (come forse pensano tuttora molti di voi) che i bambini avessero
un impulso alla competizione più forte rispetto agli adulti. Così abbiamo
fatto molta esperienza in quel campo: competizioni di Kata,
competizioni di Kumite, ecc... Dopo decenni di esperienza, siamo
arrivati alla conclusione che può sorprendere molti di voi:
- i bambini
soffrono con questo tipo di competizione, e soffrono molto più degli
adulti. La competizione con arbitri e medaglie, anche se organizzata in
maniera amichevole, porta sempre lacrime su quei piccoli visi.
Semplicemente non possono capire perché solo uno o due di loro
possono salire su quel piedistallo o vincere la medaglia. Nei giochi
tradizionali ci sono molte varietà di ruoli e ogni bambino può avere
l’opportunità di vincere qualche volta, anche se la maggior parte delle
volte perde. Nella competizione istituzionalizzata, accade sempre il
91

contrario: solo pochi possono vincere e normalmente sono sempre gli
stessi, gara dopo gara, perché il gioco (kumite o kata) è sempre lo stesso.
Così, anche per i bambini, siamo giunti alla conclusione che la
competizione istituzionalizzata porta più danni che benefici. Da allora
abbiamo semplicemente deciso di smettere. E, ci crediate o no, da quel
momento il numero totale dei bambini è cresciuto ed il numero di
bambini e genitori scontenti è diminuito! Allora cosa resta del mito che
vorrebbe la competizione quale strumento per portare più persone nei
dojo? Semplicemente, noi pensiamo che non sia così. Almada ha una
forte tradizione nelle Arti Marziali, vi si possono trovare arti quali la
Capoeira, il Kung-Fu, il Judo, il Taekwondo, l’Aikido, ecc...
Ciononostante, l’avreste mai detto? Il Karate-do Shotokai, una delle
poche Arti Marziali che non promuove la competizione istituzionalizzata
per i bambini, ha il più alto numero di giovani praticanti. Addirittura più
del Judo! Ed ora la domanda è talmente alta che il fattore limitante,
come forse ora potrete intuire, è rappresentato da noi. Nessuno di noi è
un professionista ed il tempo limitato che possiamo dedicare
all’insegnamento è completamente esaurito..Sono sicuro che molti altri
istruttori hanno differenti esperienze nell’insegnamento ai bambini.
Alcuni sostengono che la competizione sia essenziale per i giovanissimi,
altri probabilmente no. Mi piacerebbe davvero conoscere l’opinione di
altri istruttori in merito alle loro esperienze in questo campo.
José Patrão
Associação Shotokai de Portugal
Copyright © 2003 - José Patrão
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ALLEGATO C
DAL SITO DELLA SCUOLA SHOTOKAI ITALIA
IL KARATE E LE DONNE
Negli ultimi anni si sta verificando un'inversione di tendenza che,
finalmente, smentisce l'errata convinzione che il Karate sia una
disciplina riservata esclusivamente ad un pubblico maschile. Sempre più
donne di ogni età si avvicinano e si appassionano alla nostra disciplina,
ma nonostante questo sono ancora molte quelle che ne restano lontane
solo perché influenzate da pregiudizi e informazioni errate.
Nell'immaginario collettivo persiste ancora la convinzione che le Arti
Marziali siano esibizioni di forza bruta o, nella migliore delle ipotesi, se
ne evidenzia, in maniera estremamente riduttiva, il solo aspetto legato
alla difesa personale. Proviamo allora a fare chiarezza su cosa sia
realmente il Karate e prepariamoci a sfatare i falsi miti... Nel Karate
tradizionale e nello Shotokai in particolare la forza fisica non conta. Le
tecniche apprese insegnano a non opporre mai forza alla forza ma a
sfruttare l'attacco dell'avversario per neutralizzarne la pericolosità.
L'allenamento costante favorisce l'acquisizione di un corpo sano e
flessibile e accresce la fiducia in se stessi, conferendo calma e serenità e
rendendo così inutile ogni esibizione di forza. Non c'è mai brutalità né
violenza ma sincerità, rispetto, autocontrollo e continuo sforzo di
automiglioramento e crescita interiore. Il Karate non è solo pratica fisica,
è una disciplina attraverso la quale si prende coscienza dello stretto
legame tra corpo e psiche, si avverte il legame causale tra i movimenti
del corpo e la propria personalità ed è per tutti, uomini e donne,
un'occasione per iniziare un viaggio alla scoperta di se stessi.Praticare
Karate significa innanzitutto spogliarsi del vissuto quotidiano
-
pregiudizi, maschere, paure, ansie
- per migliorarsi e superare i propri
limiti, imparare a credere nelle proprie capacità, senza ostentazione, ed
avere in mente che il primo avversario è sempre e solo dentro di noi.Da
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questa considerazione è facile comprendere che il Karate è adatto a tutti,
uomini, donne e bambini e che quello che conta è la disposizione
interiore. Durante l'allenamento non importa se di fronte si ha un uomo o
una donna e le donne non hanno indulgenze in considerazione della
propria natura. Nella pratica si annullano le differenze perché il fine è
comune: l'allenamento del corpo e della mente, il rispetto ed il progresso
comune. Uno dei falsi miti vuole le donne come fisicamente inadatte alla
pratica delle arti marziali.Se è vero che gli uomini sono per natura
fisicamente più forti, le donne sono in genere più veloci e più sciolte,
due caratteristiche che nel Karate sono a dir poco fondamentali e ben più
importanti della forza fisica. Per contestare poi l'errata convinzione che
la pratica del Karate possa compromettere la femminilità basterebbe
semplicemente osservare le ragazze che praticano da molti anni insieme
a noi per rendersi conto dell'assurdità di tale affermazione. Lasciamo
però che a sfatare questo falso mito siano le parole dell'endocrinologa
Maria Luisa Brandi, docente all'Università di Firenze e tra i massimi
esperti in materia di osteoporosi e di medicina sportiva in Italia. In un
suo intervento al secondo Congresso di Medicina dello Sport tenutosi lo
scorso luglio 2003 ad Uliveto Terme la professoressa ha affermato che le
Arti Marziali sono addirittura più utili alle donne della danza classica e
dell'equitazione...Citiamo dal suo intervento:
«Qualcuno si arrabbierà
ma diciamo la verità: meno danza classica e più atletica, meno cavallo e
più Arti Marziali, meno sci e più nuoto. "Bambine, l'800 è finito, ditelo
ai vostri genitori. Per crescere bene occorrono una buona struttura
muscolo-scheletrica ed un fisico equilibrato"»
«Per una ragazza è
essenziale imparare le Arti Marziali: oltre al fatto che servono
all'autodifesa di cui si può sempre aver bisogno, sono discipline
complete, danno una concentrazione straordinaria, fiducia in se stessi,
senso dell'equilibrio e concezione dello spazio che sono i requisiti primi
dell'eleganza del portamento...»
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ALLEGATO D
Significato ed affinità dello Shiatsu
con il mondo delle Arti marziali.
Di Paolo Asirelli,
2005
(articolo pubblicato sulla rivista
elettronica: “IRIMI online” www.irimi.it)
È noto agli appassionati e studiosi delle Arti Marziali Tradizionali
Giapponesi, lo stretto legame con la dimensione Zen. Parlo in
termini di dimensione, poiché racchiude una vasta gamma di
manifestazioni.
Parte integrante di questa filosofia è l’essere umano, inteso
come entità indissolubilmente legata al tutto. Partendo dalla pura
meditazione, passando attraverso l’Arte della Scrittura, la
Cerimonia del Te, il Bu Do classico, ed altro ancora, l’approccio
pratico e diretto volge all’evoluzione in termini di consapevolezza
ed intuizione.
Al pari del Karate, lo Shiatsu attinge alla stessa fonte, ed
applica i medesimi principi anche se con meccaniche e finalità
solo apparentemente diversi. Un’altra analogia tra le due discipline
è individuabile nella biforcazione tra gli stili interni ed esterni.
Parliamo ora di due Scuole senza ombra di dubbio
identificabili tra gli stili “interni”.
La Scuola Shotokai del Karate Do e la scuola Meiso
Shiatsu nel campo dello Shiatsu. Assumiamo la traduzione del
Karate come
“mano vuota”. Letteralmente, Shiatsu significa
“pressione delle dita”. Appare già evidente dal nome che in
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entrambe l’attenzione è focalizzata sulla mano, e sulla sua capacità
di azione e interazione.
Sia nel Karate Do Shotokai che nel Meiso Shiatsu sono
fondamentali l’affinamento della sensibilità e della consapevolezza
nel rapporto con se stessi, con gli atri e l’ambiente circostante.
Analizzando di seguito i principi e le metodiche che
definiscono il percorso del praticante di Meiso Shiatsu,
appariranno ancora più chiaramente le affinità.
Nel Meiso Shiatsu la parte fondamentale della pratica è
rivolta alla preparazione del terapista. È necessario raggiungere la
migliore condizione di stabilità ed equilibrio, applicando l’uso del
respiro
( respirazione Seichushin, pratica del Kiai) , bilanciando il
tanden ( con pratica Do Zen), in modo da pervenire ad un corretto
assetto posturale che consenta di applicare pressione ed energia in
modo naturale e senza tensioni.
Allo stesso tempo attraverso il pensiero positivo, l’immaginazione,
il ringraziamento
(ben amalgamati nel saluto Gassho), si opera
un’armonizzazione interiore molto sottile ma non meno importante
per aprire i canali di comunicazione e sensibilità indispensabili al
terapista.
Da tempo sono ben noti agli esperti di arti marziali i ruoli
di Tori ed Uke. Si tratta di due praticanti che fronteggiandosi
riescono a rendere la massima espressione delle loro azioni quando
animati da pensiero sincero con volontà di interazione volta al
reciproco miglioramento più che all’esibizione di mera forza o alla
prevaricazione per il conseguimento di una effimera vittoria.
Nel Meiso Shiatsu Tori è assimilabile il terapista, ed Uke
alla persona trattata. La massima efficacia della terapia si otterrà
quando il terapista sarà in grado di applicare le tecniche
correttamente, e il paziente di rendersi disponibile a riceverle.
Perché ciò sia possibile, appare chiaro che solo attraverso l’unità di
96

intenti, la massima sincera disponibilità e il pensiero volto al
positivo, l’azione sarà efficace ed i sui effetti apprezzabili.
Attraverso l’uso dell’immaginazione, il terapista potrà
superare facilmente il limite della tecnica ed accedere al più
profondo scambio di forza vitale. Un chiaro esempio di
applicazione di questo principio
(se pur con finalità leggermente
diverse), è rappresentato dall’Oitsuki del Karate Shotokai che
viene portato pensando di proiettarlo oltre il bersaglio.
Ovviamente tutta la pratica, sia individuale che di coppia,
richiede la massima concentrazione, sia per renderla efficace che
per rispetto verso se stessi, gli altri e la vita.
Parte fondamentale della preparazione del terapista è la
Pratica Do Zen
Si tratta di una serie di esercizi pratici e di meditazione in
movimento volti al rafforzamento del tandem.
I principi fondamentali sono:
-
azione armonica alternata di massima contrazione seguita
da massima decontrazione ed ascolto consapevole degli
effetti
-
movimento del corpo in relazione con l’hara alla ricerca
dell’equilibrio attivo
-
movimento delle articolazioni in relazione con i meridiani
energetici per il loro bilanciamento
-
posizioni di stiramento per la stimolazione dei meridiani e
l’apertura dei canali energetici
-
azioni di potenziamento per le attivazioni dei flussi
sanguigni ed energetici
97

Nell’ambito della preparazione non meno rilevante è la
Respirazione Seichushin
È strettamente legata alla pratica Do Zen, in particolare per
l’elasticizzazione del diaframma ed attraverso questo la correzione
dell’asse posturale il massaggio agli organi interni. È uno
strumento importante per un corretto bilanciamento ed utilizzo
dell’energia.
-
la tecnica principale consiste nella spinta verso il basso del
diaframma in fase di espirazione con un’azione molto
simile al Kimè del Karatè
-
le tecniche di respirazione sono associate al controllo del
sincronismo con il battito cardiaco
L’importanza del
Kiai
È una tecnica ben nota ai praticanti di Arti Marziali.
Consiste in una emissione sonora profonda prodotta da una forte
contrazione diaframmatica verso il basso in fase espiratoria
esercitando la massima pressione sugli organi addominali con
forza nelle lombari e sotto all’ombelico. Nella preparazione, viene
accompagnata dalla percussione dell’hara in posizione Kiba Dacki
La parte applicativa
Se carente di consapevolezza, sensibilità, equilibrio, si
riduce ad una semplice azione meccanica che, per quanto valida,
rischia di non entrare in profondità. Nell’applicazione pratica dello
Shiatsu è necessario, prima di applicare qualsiasi tecnica, qualche
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istante di ascolto del respiro del paziente in modo da sincronizzare
il proprio con esso. Questo tipo di concentrazione
, deve essere
mantenuto per tutta la durata del trattamento.
I CARATTERI DELLA PRESSIONE NELLO SHIATSU
Semplicemente, possiamo definire che tutte le tecniche
fondamentali della pressione esercitata dal terapista rispettano i
seguenti parametri
CONCENTRATA
PERPENDICOLARE
COSTANTE
Questi principi devono essere applicati correttamente, sia che le
tecniche siano con i pollici, le mani, o con l’ausilio di gomiti,
piedi, ginocchia o nell’applicazione delle leve.
Gli stessi principi costituiscono i fondamentali del Kihon nel
Karate.
I KATA’
Nel Meiso Shiatsu sono codificati sette Katà, ognuno dedicato al
trattamento dell’essere umano per armonizzarlo, seguendo precisi
principi.
-Respiro
-Articolazioni
-Circolazione del sangue e linfa
-Pressione
-Regolazione dell’asse
-Organi
-Modi di trattamento
99

Nel Karate, ricercando le radici più profonde,se non limitiamo
l’interpretazione dei Katà al solo svolgersi delle tecniche,
troveremo Katà respiratori, di pressione, uso del respiro e del Kiai,
alternanze di massima tensione e decontrazione, simmetrie di
movimento e conseguente regolazione.
Concludo questa breve indagine con una domanda: Che
cosa è che trasforma una disciplina in un’arte ?
Forse un’alchimia di tecnica, passione, genialità, e
soprattutto la capacità dell’uomo di spendersi con tutto se stesso,
anima e corpo. L’arte è nell’uomo, non nel metodo.
Ritengo che per comprendere a fondo ed onorare lo spirito
dei grandi maestri che ci hanno lasciato queste affascinanti arti
dell’uomo, sia
necessario
praticare
con,
umiltà,
non
dimenticandoci mai di mettere in gioco la nostra anima, come se
fosse serenamente questione di vita e di morte.
Paolo Asirelli
- Praticante di Karate Do Shotokai & Meiso
Shiatsu
Note:
Alcuni elementi di questo testo fanno riferimento al libro ufficiale della Scuola
Meiso Shiatsu.
Yuji Yahiro
MEISO SHIATSU
Terapia e educazione per la salute e l’evoluzione umana.
Quarta edizione
Edizioni Cometa Roma, 2003
100

ALLEGATO E
La pratica del DO
Tratto da “Egami Karate-Do Nippon Karate-Do Yutenkai” di Keinosuke
Kinoshita
Poiché la pratica del Do è sufficientemente presente nelle nostre attività
quotidiane, non dobbiamo cercarla altrove. Leggete attentamente Karate
do dedicato ai professionisti del Maestro Egami. Tra diversi testi
disponibili come riferimento, quali gli aforismi di Confucio, credo che i
libri relativi al taoismo scritti da Lao-Tse siano i più utili.
Esprimo umilmente il mio desiderio che quanto presentato in
questo testo sia di aiuto a coloro che cercano una via per perseguire
l’esperienza del Do.
Lasciatemi ora introdurre il “Ni Nyu Yon Gyo Ron” (due vie per
entrare e quattro idee nell’allenamento). Lo scritto appare nel libro di
Keitoku Dento Roku ed afferma che vi sono due vie per raggiungere la
maestria nel Do; una è l’approccio teoretico, l’altra è l’approccio pratico
ed entrambi gli approcci sono volti a raggiungere lo stesso scopo.
Raccomanda inoltre che si tengano in mente quattro idee mentre si
eseguono gli esercizi. Queste quattro idee derivano dagli insegnamenti di
Daruma (Bodhidharma n.d.t.), fondatore del Buddismo Zen.
1. Houen Gyo: Allenarsi partendo dalle cose basilari, non farsi
depistare da dettagli triviali.
2. Zuien Gyo: Iniziare con qualcosa a noi familiare e continuare
nello sforzo di apprendere, non allenarsi semplicemente per
emulare vie ideali.
3. Mushogu Gyo: Allenarsi con una mente pura senza desiderare
risultati derivanti da motivazioni egoistiche.
4. Shoho Gyo: Allenarsi naturalmente accettando le regole della
natura.
101

Tra queste quattro idee io ritengo che la più importante sia Zuien
Gyo. Prendendo questa opportunità auspico il vostro continuo
allenamento.
Sono convinto che quello che potete apprendere praticando il Karate do
è essenzialmente qualcosa che conoscete già ora.
Qualcuno cerca di raggiungere il Do filosoficamente. Mentre
apprendono la teoria si ritiene che abbiano un opportunità di ricercare il
Do. Mentre seguono questa opportunità possono venire fortemente
impressionati dalla teoria stessa. Credo che l’impressione specifica sia la
cosa più importante e che Zuien Gyo debba essere studiato attraverso
continue impressioni. Noi abbiamo semplicemente la necessità di
seguire ogni impressione per raggiungere il Do. Ma dobbiamo altresì
essere cauti studiando una teoria perché tendiamo ad apprendere non
praticamente ma idealisticamente.
D'altro canto coloro che cercano di raggiungere il "Do"
praticando Egami Karate-do hanno già riconosciuto la teoria e stanno
percorrendo la strada che li porterà alla maestria del "Do". Anche se
all'inizio non capiscono il significato o la teoria, arriverà il giorno in cui
istantaneamente le comprenderanno entrambe come fossero una cosa
sola. Continuate a praticare Karate-do e quel giorno arriverà. Per
approfondire il "Do" ci sono diverse strade: lo Yoga, lo studio degli
scritti di Lao-Tse, Chuang-Tse, Confucio, lo Zen e l'antico Shintoismo.
Tutti sono interrelati e mentre tenteremo di raggiungere l'essenza di
queste dottrine arriveremo alla stessa comprensione. Lasciatemi ora
introdurre i nove gradi/livelli di competenza nel "Do" come descritti
nella parabola di Chuang-Tse. Essi sono: 1. Ya, 1. Jyu, 3. Tu, 4. Butsu,
5. Pai,
6. Kinyu,
7. Tensei,
8. Fuchishi Fuchisho,
9. Daimyo Qui
troviamo un elemento del Taoismo che è differente dallo Jyugyuzu dello
Zen. Quanto segue è una breve spiegazione dei nove gradi. Ya è
l'assenza di arte nel primo anno. Nel primo anno si è nello stato di
semplicità, immaturità ed ignoranza. Si può essere ancora semplici ed
innocenti alla fine del primo anno. Jyu è l'obbedienza nel secondo anno.
102

Si inizia a realizzare cosa siano la verità e la Via. Si inizia a prestare
attenzione alla verità o "Do". Si può dimostrare obbedienza verso gli
altri alla fine del secondo anno. Tu è ricettività e comunicazione nel
terzo anno. Si entra in uno stadio di sviluppo. Si è in grado di accettare
tutto senza pregiudizi. Butsu è genuinità nel quarto anno. Si può divenire
persone veramente genuine e raggiungere uno stato mentale privo di
egocentrismo alla fine del quarto anno. Pai ovvero tutto comincia a
tornare nel quinto anno. Quando si è in grado di accettare tutto con una
mente priva di egoismo, qualcosa di nuovo può ispirarci. Kinyu è oltre
l'abilità umana nel sesto anno. Si entra finalmente nel mondo spirituale.
Si può avvertire naturalmente ispirazione da fonti di cui prima non si era
consapevoli. Tensei è naturalezza nel settimo anno. Si entra nello stato
in cui si è raggiunto il regno del Cielo dal mondo delle cose umane. Si
ottengono le virtù scopo del Taoismo.
Fuchishi Fuchisho descrive l'ottavo anno in cui non si distingue la vita
dalla morte. Si entra nello stato di salita oltre il mondo. Ci si libera dal
tempo e dalle altre preoccupazioni di questo mondo. Daimyo è il
risveglio spirituale nel nono anno. Si raggiunge l'illuminazione.
Facciamo uno sforzo per raggiungere il quarto livello, butsu o essere
genuini, senza preoccuparci dei gradi superiori. Inoltre non fatevi
prendere troppo dalle descrizioni scritte sebbene sia meglio conoscerle
che esserne all'oscuro. È molto più importante studiare attraverso
l'allenamento. Continuate a praticare ogni giorno!
103

ALLEGATO F
Tratto da “Il Crisantemo e la Spada” di R. Benedict
Tavola schematica degli obblighi giapponesi e dei loro reciproci
1.
On: obblighi contratti passivamente. Si
« riceve un on »; si «
porta un on », ossia, gli on sono obblighi dal punto di vista di
chi ne è il soggetto passivo.
ko on. On ricevuto dall'Imperatore.
oya on. On ricevuto dai genitori.
mushi no on. On ricevuto dal proprio signore.
shi no on. On ricevuto dal proprio maestro.
on ricevuti in tutti i rapporti avuti nel corso della propria vita.
(N.B. Tutte queste persone da cui si riceve un on diven-gono il proprio
on jin, o « uomo dell'ora ».)
2.
Reciproci dell'on. Si « pagano » questi debiti, si « ri-cambiano
questi obblighi
» all'« uomo dell'on
», ossia questo tipo di
obblighi è considerato dal punto di vi-sta del soggetto che li
ripaga.
A. Gimu. La forma di pagamento più completa, ma pur
sempre solo parziale, e illimitata nel tempo.
chu. Dovere verso l'Imperatore, la legge, la Patria.
ko. Dovere verso i genitori e gli antenati
(e, per
implicazione, verso i discendenti).
nimmu. Dovere verso il proprio lavoro.
B. Giri. Questi debiti sono considerati tali da dover es-sere
ripagati con equivalenza matematica rispet-to al favore
ricevuto e sono limitati nel tempo.
104

1. Giri nei confronti del mondo.
Doveri verso il sovrano.
Doveri verso i parenti.
Doveri verso le persone non imparentate, a causa di un on
ricevuto, per esempio, per un dono in denaro, per un
favore, per un contributo in lavoro (come per un « lavoro di
gruppo »).
Doveri verso persone legate da parentela non abba-stanza
stretta
(zie, zii, nipoti) per on ricevuti non da loro, ma da
antenati comuni.
3.
Giri nei confronti del proprio nome. È questa la versione
giapponese del concetto tedesco di « onore » (die Ehre).
Dovere di cancellare il disonore per un'offesa o per
un'accusa di insuccesso, ossia,
« dovere » di ostilità o di
vendetta.
(N. B. Questo modo di regolare i conti non è
considerato aggressione.)
Dovere di non ammettere un insuccesso (professio-nale) o
la propria ignoranza.
Dovere di rispettare le regole di convenienza giappo-nesi;
per esempio: mantenere un comportamento de-coroso, non
vivere in maniera superiore alla propria condizione sociale,
dominare ogni segno di emozione nelle occasioni non
appropriate, ecc.
105

ALLEGATO G
ELENCO DEGLI SHOGUN, DEI REGGENTI E
DEI DITTATORI DAL 1185 AL 1603
Shogun del clan Minamoto
Yoritomo
1192
Yorije
1202
Sanetomo
1203
Tokimasa
1203
Shogun del clan Fujiwara
Yoritsune
1226
Yasutoki
1225
Tsunetoki
1242
Yoritsugu
1244
Tokiyori
1246
Shogun principi imperiali
Munetaka
1252
Nagatoki
1256
Masamura
1264
Koreyasu
1266
Tokimune
1268
Hisa-Hira
1289
Sadatoki
1284
Morikuni
1308
Morotoki
1300
Morinaga
1334
Takatoki
1315
Shogun del clan Ashikaga
Takauji
1336
Yoshiakira
1358
Yoshimitsu
1367
Yoshimochi
1395
106

Yoshikazu
1423
Yoshinori
1428
Yoshikatsu
1441
Yoshimasa
1449
Yoshitane
1490
Yoshizumi
1493
Yoshitane
1508
Yoshiharu
1521
Yoshiteru
1545
Yoshihide
1565
Yoshiaki
1568
Dittatori Amministratori
Oda Nobunaga
1573
Hideyoshi
1582
Hideyori
1598
Shogun del clan Tokugawa
Ieyasu
1603
Hidetada
1615
107

ALLEGATO H
PERIODI STORICI DEL GIAPPONE
Preistoria e protostoria
Jomon
verso il 7500 a. C., verso il 300 a. C.
Yayoi
verso il 300 a. C. , verso il 300 d. C.
Kofun (tombe megalitiche)
IV - VII secolo della nostra era
Storia
Periodo di Asuka
525-645
Periodo di Nara
645-794
Periodo di Heian
794-1185
Reggenti Fujiwara
890-1185
Periodo di Kamakura
1185-1333 (i reggenti Hojo)
Periodo di Muromachi
1333-1573 (gli Shogun Ashikaga)
Periodo di Momoyama
1573-1603 (i dittatori)
Periodo di Edo
1603-1868 (gli Shogun Tokugawa)
Periodo contemporaneo:
Era Meiji
1868-1912
Era Taisho
1913-1924
Era Showa
1924-
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