Il kumite da duello a balletto (di S.Roedner)







Le origini del jiyu kumite sono sufficientemente note, anche se non tutti concordano con la versione che riassumerò qui di seguito. Nell’aprile del 1983, il Maestro Nakayama mi dichiarò:

“Nel novembre 1936 tutti i praticanti di karate di sette università eseguirono una manifestazione in comune, della quale conservo ancora il programma. Eseguimmo kihon, kata individuale, gohon kumite, kihon ippon, jiyu ippon kumite. A chiusura del programma per la prima volta fu introdotto il Jiyu Kumite. La gente di Tokyo ne fu sorpresa, e grande fu il successo presso l'opinione pubblica. Io eseguii il kata Empi e il Jiyu Kumite.”

Questo naturalmente non significa che prima di tale data maestri e praticanti di karate non combattessero tra loro: Richard Kim, nel suo suggestivo resoconto sul periodo di Okinawa, fa numerosi riferimenti al jissen kumite, un combattimento molto realistico tra esperti, per il quale ci si preparava molto accuratamente e che lasciava pesanti segni sul vincitore e sullo sconfitto. Per avere un’idea della durezza della prova, si pensi al kyokushinkai o alla boxe tailandese. Per obbiettività, bisogna aggiungere che altri maestri di altri stili rivendicano il primato dell’invenzione del combattimento libero. Comunque siano andare le cose, il 1957 vide i primi campionati nazionali della JKA ed il primo torneo di kumite, entrato nella leggenda perché Hirokazu Kanazawa lo vinse combattendo con una mano fratturata, parando con l’altra e facendo punto di calcio. Rievocando quella prova trent’anni più tardi, Kanazawa mi disse che era impossibile un confronto col kumite sportivo degli anni ’80:

“È lo spirito che è differente. Allora quando combattevamo noi consideravamo mani e piedi come lame, perciò essere raggiunti in faccia era un disonore, voleva dire essere morti; ora invece in gara ciò che conta è fare il punto. Non si possono fare paragoni.”

Che io sappia non c’è documentazione filmata di quel primo torneo, ma qualcuno ha avuto la buona idea di digitalizzare e postare su Youtube alcuni combattimenti dimostrativi che risalgono ai primi anni ’60, tra i quali uno tra Kanazawa e Enoeda ed un altro tra Yamaguchi Toru (da non confondersi col “gatto” del Goju Ryu) e il M°Shirai. Ciò che sorprende in questi incontri è l’uso prevalente delle tecniche di calcio, dei salti e delle spazzate. Spesso il kumite non si arresta neppure quando uno dei due contendenti finisce al suolo. È un combattimento che contrasta in modo stridente col cliché del fighter shotokan statico, attendista, con uso prevalente se non esclusivo di tecniche di pugno, tutto sommato noioso e prevedibile, poco mobile, vulnerabile alle tecniche più fantasiose e dinamiche dei combattenti degli altri stili. Insomma, tutto il battage pubblicitario utilizzato contro di noi da “quelli di Roma” all’epoca dell’unificazione Fik-Fesika (1979). Ma eravamo proprio così? E come erano gli altri?

È all’inizio degli anni ’70 che si consuma la grande frattura fra la JKA e la UEK/WUKO, politicamente dominate dal francese Delcourt. Come scrive Falsoni nella sua Storia del karate italiano, ai Mondiali di Parigi del 1972, per protesta contro una decisione arbitrale sfavorevole, Nakayama ritira la squadra, crea un’organizzazione concorrente (IAKF) e organizza propri campionati a Tokyo (1973), a Los Angeles (1975), nuovamente a Tokyo (1977), a Brema (1980) e al Cairo (1983), in concorrenza con i campionati Wuko di Long Beach (1975) Tokyo (1977) Madrid (1980) Taipei (1982) e Maastricht (1984). Lo scisma taglia trasversalmente il karate europeo: Spagna, Francia, Olanda scelgono la UEK, Germania e Yugoslavia la EAKF; Inghilterra e Italia si spaccano in due.

In assenza dello Shotokan ufficiale, presto rimpiazzato dalla SKKI di Kanazawa, la Wuko prende delle decisioni cruciali per il futuro del kumite agonistico: vengono introdotte le categorie di peso e modificato il sistema di arbitraggio, portandolo da un ippon (shobu ippon) a tre (shobu sanbon). Vengono privilegiate le tecniche di calcio jodan, per le quali la concessione dell’ippon è pressoché automatica, e in generale reso meno rigoroso il criterio per la concessione dei punti. L’intento dichiarato è quello di rendere più spettacolari gli incontri e di scoraggiare gli incontristi. Prosperano in questi anni la scuola francese erede di Valera (Pyree, Belrhiti, Montama, Ruggero), quella olandese (Kotzebue, Van Mourik) e gli inglesi “eretici” (Charles, Whyte, Mc Kay) mentre sul fronte dello Shotokan questi sono gli anni d’oro di Oishi, Tanaka, Brennan, Capuana, Demichelis, Willrodt e Godfrey.

Il 1979 vede la riunificazione del karate italiano nella Fikda: dopo quasi un decennio i nostri combattenti shotokan si misurano con le nuove regoli arbitrali. L’impatto è traumatico: la potenza e la ricerca del colpo risolutivo non vengono premiate, lievi toccate sono sanzionate severamente, poi basta un uraken in volo o un gyakuzuki arretrando per capovolgere il risultato dell’incontro. Nonostante la delusione e l’amarezza iniziali, gli anni ’80 sono, almeno in Italia, il periodo d’oro del kumite: dall’incontro di due scuole nasce uno scambio di esperienze molto fruttuoso grazie al quale “noi” acquistiamo mobilità, dinamismo e scaltrezza tattica, mentre “loro” ritrovano potenza e scoprono il kizamizuki e il maegeri. Il 1985 vede il riconoscimento della WUKO da parte del CIO e lo scioglimento della IAKF, mentre il solo Nishiyama decide di proseguire la sua battaglia, ormai largamente minoritaria, per portare il tradizionale alle Olimpiadi, fondando l’ITKF col sostegno dei paesi dell’Est e del Maestro Shirai. Nello stesso periodo la World Cup di Budapest vede per la prima volta riuniti sotto le stesse bandiere atleti provenienti da esperienze diverse. Nobili gli intenti degli organizzatori, ma grande la confusione sotto il cielo. Gli arbitri fanno del loro meglio (e a volte del loro peggio) per premiare i migliori, ma chi guarda il filmato della gara a distanza di vent’anni fa fatica a capire perché, in mezzo a un vorticare di braccia e di gambe, venga assegnato proprio “quello” zuki, e perché un naso ammaccato valga una volta l’ippon e la volta successiva il chui. Fra i tanti Toni Dietl, guerriero dello Shotokan traghettato nello Wuko dal Ochi, che ha sostituito l’uraken al letale kizamizuki, ce la fa a vincere il titolo, sorretto dalla sua classe e dal peso politico della Germania.

I nostalgici possono sempre consolarsi coi campionati nazionali della JKA del 1988, l’anno dopo la morte di Nakayama. Lì non ci sono categorie di peso né guantoni, i combattimenti sono sempre lineari e velocissimi (2 minuti e un ippon), per linee diritte, le tecniche di elezione kizamizuki e gyakuzuki, gli arbitri preparati e concordi. Vincere per squalifica vuol dire essere portati via in barella, come capita al vincitore dell’edizione 1987 Yokomichi, e un pugno al volto con contatto pieno ma senza “spargimenti di sangue” procura l’ippon al vincitore Imamura, che a sua volta termina il torneo col viso segnato in più punti. Una visione marziale del kumite, destinata a soccombere alla sempre più marcata sportivizzazione della disciplina: due anni fa gli atleti dell’università di Komazawa a Treviso, guidati dal Oishi, hanno evidenziato un kumite “leggero” ma vario ed efficace, molto simile a quello Wuko.

Sono passati vent’anni da Budapest e la frammentazione nel mondo del karate si è accentuata, assieme alla contrapposizione tra i sostenitori dello “sportivo” e quelli del “tradizionale”. Protagonismi e sete di potere hanno moltiplicato il numero delle federazioni e dei campioni mondiali ed europei, ma per semplificare si potrebbe dire che la ex Wuko è implosa producendo, oltre alla WKF (sua legittima erede), anche una nuova Wuko e parecchie altre sigle dello “sportivo”. Di Domenico, Loria, Benettello, Massa, Ortu, Busà, Maniscalco e Nardi sono solo alcuni degli atleti italiani che sotto la guida del coach Aschieri sono saliti nell’ultimo decennio sul podio dei Campionati europei. I tradizionalisti sono a loro volta divisi tra l’ESKA, organizzazione Shotokan dominata dal gruppo britannico del compianto Enoeda, e l’ITKF, messa in piedi dal M°Nishiyama. Nessuna delle due organizzazioni è pienamente rappresentativa del karate europeo e mondiale, né interamente soddisfacente dal punto di vista dell’arbitraggio. L’ESKA è poco più che un campionato per club, caratterizzato da durezza, approssimazione tecnica e scarso controllo dei colpi. L’ITKF, al contrario, si è dotata di un regolamento inutilmente complesso e farraginoso, finalizzato a differenziare chiaramente il “tradizionale” dallo “sportivo”, ma tale da scoraggiare gli spettatori e i non addetti al lavoro. Oltre alla proliferazione delle specialità, che però non coincide quasi mai con la moltiplicazione degli atleti (per cui gli stessi sono impegnati in kata, embu, fukugo, in un logorante tour de force che può durare tutta la giornata) ma anzi distoglie le società più piccole dal parteciparvi, l’arbitraggio nel kumite è rallentato e complicato dall’introduzione di una terminologia, una gestualità e delle sanzioni nuove, mentre l’assegnazione delle tecniche richiede criteri tanto severi che possono passare due minuti senza che si veda un wazari. Chi criticava Capuana e Demichelis per quel minuto e mezzo di tensione, seguita “solo” da un guizzante maegeri o da un gyakuzuki che decidevano l’incontro, non può che addormentarsi guardando dei kumite nel quale un tallone sollevato preclude l’assegnazione di mezzo punto. E non può certo consolarsi constatando che “dall’altra parte” il distacco dal jissen kumite si è tanto accentuato da trasformare il combattimento in una specie di balletto tra due ginnasti, uno coi guantoni e la cintura rossa, l’altro coi guantoni e la cintura blu. Che avesse davvero ragione, il buon Funakoshi, a diffidare del jiyu kumite inventato da quel pierino di Nakayama?




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