Intervista al Maestro Higaonna - Goju Ryu








Brano tratto dal volume "Okinawa Karate no Shinjitsu"
I kata sono raccolte di tecniche apprese nel corso di combattimenti reali
Morio Higaonna – Goju Ryu – Hanshi 10° dan




Il respiro è tutto



– Per cominciare, potrebbe spiegarci quali siano le caratteristiche peculiari del Goju Ryu? Higaonna: Per dirla in parole povere, si tratta di tecniche capaci di mostrare il duro e il morbido mediante il respiro.

– Dunque, ciò significa che le tecniche si basano semplicemente sul respiro? Higaonna: Esatto. Ci si muove respirando. È l'armonia tra il corpo e il respiro.

– Si dice spesso che si inspiri rapidamente e si espiri lentamente... Higaonna: Già. Esistono più o meno 6 modi per respirare: si inspira rapidamente e si espira rapidamente, si espira rapidamente e si espira lentamente, si espira lentamente e si espira rapidamente e così via; ci sono varie modalità.

– E il loro impiego dipende dalle tecniche, giusto? Higaonna: Esatto, dipende dalle tecniche. Il respiro è importante al punto tale da poter dire che esso sia tutto. Un simile metodo di respiro, naturalmente, in un primo momento viene adottato in modo consapevole, ma esso va allenato fin quando tale consapevolezza non viene meno e si diviene inconsapevoli.

– Vista così, è l'esatto opposto delle scuole dello Shurite! Lo Shurite asserisce che il respiro debba essere naturale.

Higaonna: Proprio così. Il nostro metodo di respiro prevede che si inspiri dal naso e si espiri dalla bocca. E poi abbiamo il respiro diaframmatico [ndt: in giapponese, “Tanden Kokyu”]. Esiste anche il respiro addominale. Quando espiriamo, lo facciamo dalla bocca, ma possiamo espirare anche dal naso. Quando espiriamo, all'aprirsi della bocca la gola si chiude in modo naturale. Al chiudersi della bocca, la gola si apre in modo naturale. Eseguiamo le tecniche in accordo con tale respirazione, ma non mostriamo il nostro respiro all'avversario. Non si sente. Respiriamo in silenzio. All'inizio ci esercitiamo facendolo consapevolmente, ma alla fine la cosa deve diventare naturale, inconscia. Non si deve sentire prima il respiro.

– Non mostrare il respiro, significa non lasciare che vengano intuiti i propri movimenti, giusto?

Higaonna: Esatto. Ecco perché, non appena l'avversario espira, portiamo immediatamente le nostre tecniche. Diventa così necessario percvepire il respiro. Si usa il respiro per leggere quello dell'avversario. Sinizialmente si allena il respiro in modo consapevole, e così si impara a leggere il respiro dell'avversario. Gli esseri umani stabiliscono le condizioni di vittoria o di sconfitta nel momento in cui espirano. Non si può attaccare quando si sia inspirato. Ecco perché nel Gojuryu si insegna a respirare profondamente e in modo consapevole. Con l'età cambia il modo di muoversi, come anche il modo di respirare. Si può fermare il respiro ed esercitare una data forza, oppure esercitare tale forza in concomitanza con il respiro. È necessario percepirlo in modo conscio. Nel sanchin si emette forza quando si espira dicendo “Ah”. Anche per quanto riguarda i calci, ce ne son di quelli che si eseguono interrompendo il respiro e altri che prevedono che si rilasci energia mentre si espira. E se non lo si riesce a percepire, all'inizio può risultare difficile.

– Anche nel chuan fa [ndt: kenpo in giapponese] cinese, a quanto si dice, le tecniche di combattimento tradizionali prevedono che ci sia un legame tra il respiro e l'emissione di energia: il Gojuryu, quindi, aggiunge a tale tradizione uno studio tutto suo, vero?

Hogaonna: Tra gli insegnamenti del maestro Chojun Miyagi, è indicato che quando si respira per prima cosa bisogna percepire i fianchi [ndt: “koshi”, in giapponese: termine specifico che indica la regione del bacino, delle anche e del ventre, nel karate], le vertebre lombari. E il tanden [ndt: zona posta tre dita circa sotto l'ombelico, all'interno del corpo: è da qui che, secondo il pensiero orientale, nasce l'energia. Tantien in cinese]. Si stringe l'ano come per ritrarlo e si incanala l'energia al centro del corpo. Quando si espira, lo si fa in modo diritto, dalla bocca. In tal modo la velocità aumenta e si genera potenza. Muchimi

Higaonna: Quando si para, non bisogna metterci forza. “Muchimi” sta a indicare che, prima che l'avversario colpisca, lo si deve controllare.

– “ Muchimi” quindi non significa elasticità? Higaonna: Non è solo quello, ma indica che, prima che il colpo arrivi, lo si legga e lo si freni. In tal modo si afferra il braccio dell'avversario e lo si spinge. Se si fa questo dopo che l'avversario ci abbia messo forza, si ottiene uno scontro di forze. Occorre frenare il colpo prima che vi sia impressa forza.

– Anche l'altra volta, Maestro, ha detto che una differenza con il Karate giapponese risiede nel fatto che in esso, dopo aver parato, si lasci andare l'avversario. Higaonna: Infatti. Se si spinge prima che il colpo arrivi, la distanza tra sé e l'avversario si riduce. Ecco perché i pugni più efficaci sono quelli corti. Perché in essi si manifesti energia, è necessaria una corretta respirazione.

– Nel Karate attuale, trasformatosi in sport, si colpisce e si ritrae la mano rapidamente, e in tal modo la distanza tra sé e l'avversario torna a essere quella originaria. Higaonna: Come ha già avuto modo di dire nel nostro dibattito [ndt: si riferisce a un diverso capitolo del libro] il Maestro Takamiyagi, i Maestri di un tempo insegnavano che, una volta parato, bisognava tirare e avvicinarsi. Questo, a Okinawa, viene chiamato “Kakie”. Oggigiorno nessuno sa più nemmeno come si scriva [ride]. Ma anche in Cina tale tecnica veniva pronunciata con un suono tipo “kaki”. E dopo essersi avvicinati, si proseguiva con la tecnica chiamata “Kou” (appoggiare).

– Con “Kou” si intende uno stretto contatto fisico, vero? Con la mano che afferra si tira con forza e la distanza tra sé e l'avversario, anziché non cambiare, addirittura si riduce!

Higaonna: Esatto. Parando in questo modo, si tira l'avversario e si porta un attacco seguendo il braccio. E questo si fa a grandissima velocità, come se si trattasse di una frusta. Se si segue il braccio, a prescindere da come l'avversario si muova, alla fine lo si troverà comunque. In tal modo, si può attaccare così [colpisce il collo dell'avversario con un nukite].

– Capisco. E anche questo si basa su teorie presenti anche nel Quan Fa cinese, giusto? E dunque, tutto questo è ciò che a Okinawa si chiama “Muchimi”?

Higaonna: Esatto, è il “Muchimi”. Anche il “Sanchin”, se praticato di fronte a un cinese, viene riconosciuto come “Sanchen”. A parte Tensho e i Gekisai, che sono kata inventati in Giappone, si tratta di forme originatesi in Cina. Soltanto, di Kururunfa si dice che sia scritto con caratteri [ndt:] molto giapponesi. Io penso che alla base del Karate non ci sia solo la Cina ma che essa si estenda anche a tutto il Sudest Asiatico. Dico questo perché nel Karate ci sono delle tecniche che non si trovano in Cina. E risalire a tali radici è l'obiettivo che mi pongo per il futuro [ride].





Sanchin

– Quanto a “Sanchin”, ne esistono due, quello originario del Maestro Kanryo Higaonna e quello del Maestro Chojun Miyagi, vero?

Higaonna: Il “Sanchin” portato dal Maestro Kanryo dalla Cina prevede tre passi in avanti, una rotazione e altri tre passi in avanzamento. Il Maestro Chojun invece, affermava che è naturale che le persone si muovano in avanti, ma non che indietreggino. Ed è agendo in considerazione di questo che, diceva, si elimina ogni stortura. Che si avanzi o si indietreggi, occorre impiegare la medesima energia. Quando si va indietro, si deve mettere il peso sui talloni.

– Si possono sollevare i talloni?

Higaonna: No. Si indietreggia scivolando in suriashi. E non si alzano i piedi nemmeno quando si avanza. Tutto si basa sul suriashi. Tuttavia, il Maestro Chojun insegnava il “Sanchin” nel quale si indietreggia dopo la Guerra. Dal 1945. Per essere precisi, dal 1947, se non sbaglio.

– In Giappone il “Sanchin” si esegue indietreggiando dopo essersi girati.

Higaonna: Il “Sanchin” originale è quello tramandato dal Maestro Kanryo. A quel tempo si eseguiva a mani aperte. Nel 1905, assunti come ufficiali presso la Scuola Superiore di Commercio, Anko Itosu e il Maestro Kanryo furono chiamati a insegnare Karate agli allievi: fu allora che Itosu, come promotore di una scolarizzazione del Karate, usò i pugni chiusi. Il Maestro Kanryo usava il nukite, dal momento che è più rapido e realistico dal punto di vista del combattimento. Ma dal momento che era pericoloso, venne assunto il pugno chiuso del Maestro Itosu. Il Maestro Kanryo ci rimase male e si sbronzò! [ride]

– Nel precedente incontro si è parlato del fatto che si volesse “nascondere” [ndt: ossia, nascondere le vere tecniche]...

Higaonna: Il Maestro Kanryo invitava a nasconderle, a non mostrarle.

– Significava forse tenerle nascoste come ultima risorsa?

Higaonna: Proprio così. Anticamente ci si allenava rinforzando il nukite. È più rapido e permette di raggiungere prima l'avversario, essendo anche più lungo.

– Ossia, la portata delle dita estese è maggiore?

Higaonna: Sì. Anche in Cina si allena il nukite per rafforzarlo.

– Aah... Come nella “Mano di ferro” si colpisce di punta la sabbia e cose simili per il condizionamento! Dal punto di vista di un principiante, si potrebbe pensare che il nukite risulti più pericoloso in quanto si cerca di colpire perforando con le dita o tagliando, ma ci si dovrebbe allenare fin quando non si presenti più alcun rischio, no?

Higaonna: Già. E per questo allora ci si rafforzava con piegamenti sulle dita e cose simili.

– Si tratta di condizionamento?

Higaonna: Sì. Ci si addestrava completamente. Uno per uno. E siccome il Maestro Chojun era benestante, lo faceva pure in casa propria.

– Che c'entra il fatto che fosse benestante? [ride]

Higaonna: Beh, è che ne aveva la possibilità. Poteva passare ogni giorno un sacco di tempo a rafforzarsi. Il Maestro Chojun, all'età di 19 anni lavorò per un anno in banca, ma per il resto si addestrava dal mattino alla sera. Gli piaceva la pratica. Da giovane non faceva che fare a botte e su di lui circolavano brutte voci, ma quando scoprì la pratica si calmò parecchio, lasciandosi assorbire completamente da essa. Il Maestro Kanryo Higaonna era invece povero, e per questo lo invitava a casa sua si allenavano nella stanza col tatami [ndt: nelle case giapponesi ci sono sempre almeno una o due stanze con in terra i tatami di bambù. Sono stanze in genere riservate a pratiche cerimoniali, o al dormire. Non ci si dovrebbe allenare lì visto che il tatami tende a rompersi e strapparsi facilmente!]. E così il tatami si stracciava e andava in pezzi ogni volta! [ride]

– Questo perché si allenavano facendo suriashi sul tatami! [ride]

Higaonna: Già. Ci si muove facendo aderire per bene la pianta del piede, come se fosse attratta al suolo. Quando si lavora sul condizionamento del corpo, si verifica la postura tenendo il tallone. Si controlla quindi se la concentrazione sia viva fino ai talloni. Il maestro Kanryo era in grado di capire le condizioni di salute di qualcuno solo toccandogli i talloni e poi misurandone le pulsazioni. Diceva “I tuoi piedi sono stanchi. Ieri notte hai fatto le ore piccole!”, e ancora “Oggi andiamoci piano!” (ride) E anche così, si perdeva spesso conoscenza, ripetendo Sanchin senza sosta in una stanzetta chiusa.

– È necessario arrivare a tal punto, per imparare a dovere?

Higaonna: Lui diceva “Colpisci ancora!” e si tirava un pugno; e allora ripeteva “Colpisci ancora!”, “ Un'altra volta!”. E si andava avanti ripetendo in questo modo.

– Dunque, non si faceva altro che ripetere Sanchin!

Higaonna: Esatto. Non ci si allenava come adesso, ma si ripeteva sempre la stessa cosa. Pare che [Miyagi] arrivasse perfino a perdere i sensi per la stanchezza! E lui lo faceva rialzare, gettandogli addosso dell'acqua.

– Lo credo bene! A furia di contrarre il corpo concentrandosi sul respiro...

Higaonna: Eh, già. Era del tutto concentrato. La stanchezza mentale era anche maggiore di quella fisica. Cervello e concentrazione. Usava le energie mentali e fisiche allo stesso tempo. Non sentiva stanchezza fisica (il Miyagi di allora), essendo ancora giovane. E ciononostante, pare sia svenuto diverse volte. Una volta c'è perfino scappato il morto, per la troppa stanchezza. Era uno povero, e quindi non riusciva nemmeno a nutrirsi a dovere. Ed era in queste condizioni che allenava Sanchin, addestrandosi tutto il giorno in quella stanzetta chiusa. La notizia non venne mai resa pubblica, ma ci fu chi morì.





I metodi di insegnamento e la tradizione

– Il Goju Ryu e lo Uechi Ryu, secondo alcuni, all'origine si ispiravano al medesimo Quan Fa cinese, o addirittura erano due tecniche di una stessa tradizione.

Higaonna: Sì, può darsi.

– Tuttavia, tra i due, il Goju Ryu è in un certo senso quello più austero, e dal punto di vista teorico quello che appare più semplice. Lo Uechi Ryu sembra conservare più profondamente l'impronta del Quan Fa originario.

Higaonna: Esattamente. Secondo me, lo Uechi Ryu prosegue il Quan Fa così com'era. Ci sono forme sulla tigre e su altri animali, e tecniche come il Rankanken e lo Tsuruken.

– Vero. Ci sono forme di animali come la tigre, il drago, l'airone e altre ancora, che appaiono così come sono. Anche nel Goju Ryu e nello Shorin Ryu si trovano forme come l'airone e la tigre, ma non sono evidenti come nello Uechi Ryu.

Higaonna: Sono nascoste. Come si suol dire, si nascondono gli artigli. Anticamente, si trasmettevano anche tecniche di questo genere. Ma oggigiorno, a furia di nasconderle, è successo che i kata si sono trasformati (ride amaramente). Prendiamo anche l'allenamento, per esempio quello del “mawashiuke”: all'inizio si pratica in modo ampio. Quando lo si è appreso per bene, nel combattimento reale lo si pratica in forma di tigre, facendo roteare le mani in modo più ridotto e incisivo. Come metodo di insegnamento, si dice che sia come temperare una matita. Dapprima si dà la forma con ampi tagli, e poi si smussano gli angoli rifinendo i dettagli affinché il risultato sia bello.

– E ad aver stabilito tale metodo di insegnamento è stato...

Higaonna: ...Il Maestro Miyagi Chojun.

– Il Gojuryu è stata la prima scuola a ricevere una sua denominazione in Giappone: a parte il nome, anche per quanto riguarda i metodi di insegnamento, a gettare le basi del Gojuryu moderno è stato il Maestro Chojun, vero?

Higaonna: Esatto. Fu il maestro Chojun a stabilire una tradizione di insegnamento. All'inizio i due “Gekisai ichi” e “ni”, e poi “Sanchin”. Prima della Guerra, tutti i maestri praticavano solo Sanchin. Poi si allenavano tra loro e imparavano varie cose. Ecco perché si creavano differenze, man mano che gli insegnamenti si trasmettevano di persona in persona.

– Un po' come nel gioco del telefono! (ride)

Higaonna: Già. Proprio come nel gioco del telefono! (ride)





I Kata e le competizioni

– Ascoltando quanto si è detto finora, verrebbe da pensare che dietro quanto appare semplice si nasconda qualcosa di molto più profondo: in Giappone, maestri che insegnino comprendendo questo appieno, sono pochi?

Higaonna: Beh, sono pochi... E inoltre tali concetti non vengono diffusi, visto che alla fin fine ci si concentra unicamente sull'agonismo. Va benissimo dedicarsi alle gare, ma ricordiamoci che il Karate significa addestramento fino alla morte. Come diceva il Maestro Chojun, un tempo ci si addestrava per difendere la propria vita. E poi ci si addestra per superare se stessi. Questo, diceva, è il vero Karate. “Il Karate si basa sul non colpire né essere colpiti”, diceva. Significa che evitare di combattere è strettamente legato alla pace. Inoltre bisogna mantenersi umili. Se si sta per usare una forza di 10, occorre ridurla a 5. Non si deve voler fare a botte. Se si è umili, gli avversari perdono la volontà di attaccare.

– Quindi è stato dopo il Maestro Chojun che si è passati da “bujutsu” [ndt: tecnica militare: anticamente il Karate era indicato come “jutsu”, ossia “tecnica”, contrapposto oggi a “do”, ossia “via”. Il termine “jutsu” non implica le attuali concezioni filosofiche, mantenendosi legato a un qualcosa di prettamente tecnico, per l'appunto, ossia pratico e concreto. In Giappone, ogni disciplina tradizionale è preferibilmente inserita invece nella vasta cerchia del “do”, con il conseguente spostarsi dell'attenzione dalla tecnica pura al cammino di vita, come ben esemplificato anche dai motti espressi nei venti precetti del M. Funakoshi, tanto per citare un esempio, o nel detto (budo shogai), ossia “la via del guerriero è per tutta la vita”].

Higaonna: Esatto. Il Maestro Chojun Miyagi non parlava di “Karate”. Lo chiamava “Ti”, o “Bu” [ndt: “Ti” è l'originaria pronuncia okinawense della parola giapponese “Te”, ossia “mano”. Con tale termine si indicava un'arte o mestiere, e quindi una abilità specifica di qualcuno. “Bu” indica invece l'atto di fermare una lancia, e sta a indicare l'arte del guerriero. Le implicazioni filosofiche del termine “Bu” sono profonde, stando – quasi in modo paradossale – a indicare che il Bushi, il Samurai, ha come fine ultimo la pace]. Diceva “Il Te è questo, il Bu è quest'altro”... Non si serviva nemmeno della dicitura “Gojuryu”. Diceva di usarla solo in caso qualcuno lo domandasse. Davanti alla gente, non si doveva dir mai di praticare Karate. Non lo si doveva mostrare. L'importante era solo allenarsi. Non era qualcosa di cui vantarsi: lui lo ripeteva sempre. Il Maestro Chojun, se c'era un ubriaco, faceva apposta il giro largo.

– Per non farsi coinvolgere in qualcosa?

Higaonna: Aveva paura. Non dell'avversario, ma del fatto che gli uscisse qualche tecnica senza rendersene conto. Dopo la guerra, tra le macerie, c'erano un sacco di ladri. Ecco perché girava sempre con qualche spicciolo. Allorché gli si parò davanti un ladro, glie li diede.

– A tal punto, era contrario a combattere?

Higaonna: Un poliziotto gli chiese perché si comportasse così, e lui gli rispose che quel tipo stava commettendo un'azione sbagliata, ma in questo modo la cosa si era risolta senza problemi. Un'altra volta, in un'area dell'esercito USA c'erano un sacco di cibarie immagazzinate e tutti andavano lì per rubarle. Perfino i poliziotti. E per giunta dicevano di non essere ladri! E quando dissero al Maestro Miyagi di andarci anche lui, egli rispose che sulle montagne era pieno di cibo, e che chiunque praticasse il “Bu” [le arti marziali, n.d.t.] doveva comportarsi bene. Per quanto si potesse essere affamati, non c'era bisogno, diceva, di rubare il cibo altrui.

– Doveva essere una persona eccezionale!

Higaonna: Lui affermava che tutti gli esseri umani, prima o dopo, vengono messi alla prova. Ed è proprio allora che, chi pratica il Karate, deve riflettere e superare la cosa con la propria intelligenza. E questo non può essere scambiato con i soldi o con i beni materiali. Il Maestro insegnava gratuitamente. Ma se qualche suo allievo gli portava la retta, gli domandava “Perché decidi da solo?” [ride]

– Eppure diceva di non volere soldi! [ride]

Higaonna: Già. Era arrivato a simili vette nella pratica del Bu! Ecco perché in Giappone non mostrò mai molto i kata.

– Ma ciò non significa che non volesse portare il Karate, o insegnarlo, in Giappone, no?

Higaonna: Non fu per questo! Visto che in Giappone esistevano già attitudini mentali e tendenze legate al bushido, probabilmente riteneva che, una volta insegnato un kata ci si dovesse poi allenare da soli. Invece a Okinawa era pieno di gente pigra [ride], e insegnava senza nemmeno provare a farla allenare. In questo senso, a Okinawa fu un ottimo istruttore. Ecco perché anche in Giappone sono state trasmesse, secondo me, le cose strettamente necessarie. È solo che in Giappone il Karate si è concentrato sull'aspetto sportivo. In Giappone molti istruttori dicono che i loro kata servono per le gare, o per prendere i dan [ride]. Ormai ci si concentra solo sul kumite. Certo, ci sono anche quelli che si concentrano sui kata, naturalmente. Inoltre, parlando dello Shotokan, vi è anche uno Shotokan che, concentrandosi attorno alla figura di Sensei Nakayama si è distinto sia nel kata che nel kumite, ed è una scuola favolosa.

– Questo perché ci sono anche bravi insegnanti che emergono sia nel kata che nel kumite e nelle gare.

Higaonna: Esatto. Ci sono individui eccezionali.

– Anche tra gli insegnanti, vi è chi, come Kanazawa dello Shotokan e Maeda del Wadoryu che hanno compreso l'importanza dei kata e la hanno trasportata anche nelle gare.

Higaonna: Infatti ci sono persone che, pur insegnando i metodi per vincere le competizioni, rispettano profondamente la tradizione. Un Karate puramente agonistico può essere praticato solo fino a una certa età, secondo me. Però il punto è che il Karate è principalmente una sfida con se stessi. Trovo un bene che i bambini partecipino alle competizioni. E questo perché in tal modo si pongono degli obiettivi. E quando le gare si sono concluse, è la volta dell'addestramento personale. Anche a Okinawa ci sono ragazzi che, pur vincendo in competizioni per le superiori, non sanno eseguire i kata. È necessario insegnare anche gli aspetti tradizionali. E una volta dissi che questo sarà il punto fondamentale per il futuro.

– In Giappone c'è perfino chi afferma che i kata non servano...

Higaonna: Questo perché non hanno mai sperimentato veramente i kata. Io sono ancora inesperto, ma se cerco di praticare un kata fino in fondo, mi accorgo che per ogni tecnica, ma anche solo per le posizioni, emergono aspetti mentali, fisici, medici, tecnici e molto altro ancora. Non importa che il kata serva o meno: il punto è che dal punto di vista del rafforzamento sia difficile tirare fuori la giusta forza, mentre se ci si trovasse ritti a muoversi normalmente, la si tirerebbe fuori.

– Quindi si tratta di rendere i corpi adatti a servirsi delle tecniche!

Higaonna: Proprio così. E a seconda di come lo si comunichi, per quanto non lo si possa vedere con gli occhi ci si rafforza sia nella mente che nel corpo.

– Chiunque affermi che i kata non servano, ritiene che essi siano una simulazione di un combattimento.

Higaonna: I colpi vengono fuori allo stesso modo, che ci si trovi in un luogo stretto o in uno largo, sulla sabbia o in montagna. In un luogo luminoso o in uno buio, le posizioni e le tecniche di mano, ma anche le percezioni mentali, devono risultare comunque utilizzabili. Anche lo sguardo, sebbene appaia fisso in avanti, deve abbracciare tutte le direzioni. E questo si può sviluppare con l'addestramento quotidiano ai kata. Allenarsi così da soli, è pesante! Se ogni giorno si pratica per un'ora e mezza ripetendo “Gekisai” per 100 volte, è davvero pesante! Tanto che il giorno dopo ci si ritrova con i muscoli doloranti. Occorre lanciare ogni tecnica con decisione. Ecco perché diventa una sfida con se stessi. Quando ero giovane ero bravo nella ginnastica, ma non sapevo respirare né usare le tecniche. E piano piano ho capito come si facesse.

– Per mezzo della ripetizione, giusto?

Higaonna: Giusto. L'addestramento per mezzo della ripetizione è fondamentale. Una volta, in Europa, feci tirare 1000 tsuki da shikodachi. Grondavano sudore! Era un allenamento in cui semplicemente si stava in shikodachi a tirare pugni.

– E gli allievi europei che dissero? Higaonna: “Great!” [ride] E io “Già. Simple is great. Karate is simple!” [ride] Alla fine, un simile allenamento è durissimo, ma si sviluppa una forma di fiducia in termini di sensazioni reali e di sensazioni di crescita. Ecco perché io dico sempre che bisogna avere fiducia in se stessi. E anche in chi ci insegna. E ancora, che se ci si sforza si raggiungono senz'altro i propri obiettivi. Se ci dicono di praticare 100 volte, all'inizio possiamo anche dire di non riuscirci. Ma allenandoci ogni giorno, prima o poi riusciremo a praticare 100 volte. Ci sono anche occasioni nelle quali sono io a imparare dagli allievi. Quando vedo un allievo che si muove bene, gli dico di ripetere l'esercizio e mi accorgo di qualcosa [ride]. E spesso accade che, in modo analogo, insegnando apprenda anche io qualcosa. E in quei momenti sono contento di praticare Karate, e che non si finisce mai di studiare. E questo avviene più con i kata che con il kumite. E ancora, i kata hanno un altro aspetto importante, ovvero che essi possiedono una storia. I kata nascono come raccolta di tecniche eseguite da maestri che se ne servivano per la sopravvivenza. È per questo che al loro interno si nascondono dei significati. Non sono stati creati solo come forma di ginnastica. Si tratta di raccolte di tecniche usate in combattimenti reali. Ovviamente si sono venuti modificando. Ma il Maestro Miyagi diceva che la loro essenza non è mutata. Anche se poi diceva di tenerli nascosti.

– L'altro giorno il Maestro Shimabukuro affermava che: “Le tecniche sono mutevoli. Perfino il kihon (la base, ndt) contenuto nei kata, una volta che sia stato bene appreso, può essere applicato in vari modi a seconda delle circostanze. Se i kata servano o meno, se siano applicabili o meno, è un modo di vedere le cose sorprendentemente superficiale”.

Higaonna: Esatto. È proprio così! Le forme interne ai kata sono forme di base di determinate tecniche, e non si usano così come sono. Da me abbiamo suddiviso i kata: ci sono i bunkai del kihon, i bunkai tradizionali, i bunkai applicativi. Dipende dal livello di chi li sta apprendendo. E questo perché le tecniche mutano a seconda dell'avversario. Cambiano anche solo a seconda che questi sia grosso o minuto. Pertanto non possiamo dire cose come “questa tecnica si usa così”. Non avrebbe senso.





Fare chuuraku

– Anche nel corso della chiacchierata dell'altro giorno si è parlato di gamaku e di chinkuchi, e vorrei porre qualche domanda al riguardo. In quella occasione lei, Maestro, non ne ha detto nulla...

Higaonna: Il Maestro Chojun insegnava in dialetto. “Metteteci chinkuchi!”, “Su col gamaku!”, “ Metteteci più kushi!” e così via.

– Ah, quindi anche il Maestro Chojun diceva “Metteteci chinkuchi!”? Higaonna: Uhm... non lo diceva spesso, visto che era una cosa ovvia. Giusto ai principianti, poteva dire di metterci gamaku. C'è anche chi, quando si contrae il corpo in Sanchin, non ruota l'anca nemmeno al momento di tirare un pugno. In questi casi diceva di metterci più gamaku.

– Nei riguardi di chi tirava i pugni usando solo le braccia, intendeva dire di ruotare di più i fianchi?

Higaonna: Sì. Metterci chinkuchi, metterci kushi (fianchi – koshi in giapponese, ndt), metterci gamaku quando si tirano i pugni. Ma questa è una cosa scontata. A parte chinkuchi e i fianchi, lui diceva di metterci gamaku unicamente ai principianti veri e propri. Quel che il Maestro Chojun ripeteva maggiormente era “Fate chuuraku!”, che in un certo senso significava muoversi in modo elegante. Se i movimenti e i kata non sono eleganti, diceva, non si realizza il “bu”.

– Un movimento elegante è in effetti quello ideale!

Higaonna: Già. All'inizio ci si può muovere legnosamente, ma a poco a poco si ottengono belle movenze. E poi diceva “Metteteci chinkuchi, chiruchanchantoshii!”. “Chiru” indica i muscoli e i tendini, mentre “chan” significa movimento. Quindi questo sta a indicare che il corpo riesce a emettere potenza e velocità per mezzo dei muscoli e delle articolazioni. L'insegnamento del Maestro Chojun non avveniva mai con lui fermo sul posto. Osservava tutto, dallo sguardo ai movimenti.

– E insegnava in dialetto...

Higaonna: Sì. Anche i piedi, diceva che dovevamo “Muchite”, per dire...

– Con “muchite” intendeva dire muoverli in modo deciso? Higaonna: Probabilmente significava che, se ci si avvicina a un avversario, bisogna calpestare il piede per fermare il movimento. Questa è la regola di base. Dopo che si sia calciato, si calpesta il piede dell'avversario con un passo profondo (ndt: fumikomi in giapponese). Si blocca il movimento calpestando il piede e si chiude la mano in kakete.

– Ma certo, non per nulla il Gojuryu è noto come tecnica di combattimento a distanza ravvicinata!





Il Valore Marziale

– In Giappone sono molti coloro i quali dubitano del suo Valore Marziale, Maestro. Quando ha edificato il suo dojo di Yoyogi, è vero che in molti sono venuti per un dojo yaburi (ndt: pratica che significa “abbattere il dojo”. Si sfida il Maestro di un dojo e, se lo si sconfigge, si assume il controllo di quel dojo privandolo della insegna e portandolo alla chiusura per disonore del maestro sconfitto. Pratica oggi considerata illegale ma non del tutto scomparsa, a quanto pare) e sono andati via in ambulanza?

Higaonna: Ma no! (ride) Non è mai successo niente di tanto clamoroso! Beh, Yoyogi era vicino a Kamiya, e ogni tanto qualcuno che praticava Taikiken veniva da me chiedendomi di allenarci insieme. E così, quando ero molto giovane, è capitato che qualcuno si lasciasse un po' prendere la mano...

– Maestro, questo è quel che la gente chiama un “dojo yaburi”... (ride). E la faccenda dell'ambulanza?

Higaonna: Ma no. Se ne andavano tutti sulle loro gambe. (ride) Una sola volta è successo che un giorno venne il Maestro Ken'ichi Sawai...

– Ooh! Higaonna: Mi domandai cosa volesse mai da me, e uscii all'esterno. Lui chinò il capo e mi disse “Mi dispiace per quanto hanno combinato i miei allievi l'altro giorno”. Pensai che fosse davvero un grande Maestro!

– Ooh! Quindi, anche il Taikiken, noto per essere una scuola a contatto, capì che nella sua scuola si faceva sul serio!

Higaonna: Mah, chissà! (ride)






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